Vi ricordate Lo chiamavano Jeeg Robot? Sono passati ben cinque anni, signora mia, come vola il tempo. Come crescono in fretta ‘sti ragazzi eh? Un attimo prima sono lì che giocano con il secchiello nel parco giochi dietro piazzale Sfranfruglia, un attimo dopo te li ritrovi che guardano i film horror e fumano la droga mentre hackerano il mainframe di Zion per cercare foto di Jennifer Lawrence nuda. Ok, questa metafora potrebbe essermi sfuggita di mano in tempi record.
Fuor di metafora: ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, anche se non sembra. Ricordo che vidi il film di Gabriele Mainetti al Festival di Roma, ma non alla prima proiezione perché, davvero, non ci credevo. Supereroi italiani? LOL. Una filastrocca già sentita. Fu Jackie Lang a prendermi da parte in un vicolo dietro l’Auditorium illuminato da luci al neon. Pioveva, e stranamente indossavamo dei trench e dei cappelli a tesa larga con infilato un cartellino con su scritto “Press”. Ah, lo ricordo come fosse ieri. Jackie mi afferrò il braccio e, fissandomi negli occhi, disse: “Aò, lo devi vedé”. E così feci.
Il mio cervello esplose. Un film di genere italiano che non mi spingeva a CAVARMI GLI OCCHI a ogni fotogramma fotografato male, a strapparmi le orecchie a ogni dialogo scritto come se fosse un brutto film americano e recitato come in una cabina doppiaggio! Allora scrissi, tutto entusiasta, “Sta succedendo qualcosa nel cinema italiano”. È un’affermazione che ribadisco oggi, anche se, devo ammettere, sta succedendo più lentamente di quello che speravo.
Ma sta succedendo. L’anno dopo Jeeg, Matteo Rovere ci ha deliziati con un bel film di màghine, Veloce come il vento, e l’anno scorso addirittura con una roba brutale come Il primo re. Che, per quanto non riuscitissimo da un punto di vista della scrittura, era un bel cazzotto in piena faccia da tutti gli altri punti di vista. E qui entra l’eterno dibattito, che però affronteremo dopo la SIGLA!
L’eterno dibattito è questo: da una parte quelli che “Basta che un film di genere italiano sia fatto con professionalità” e sono contenti. Dall’altra quelli che “Eh no! Non basta che sia decente, ci vuole la QUALITÀ. Se fosse un film spagnolo, saresti altrettanto clemente?”. Dibattito interessante e importante, ma che, come spesso accade, finisce per estremizzare le due posizioni e dimenticare che, nel mezzo, c’è una galassia di zone grigie nella quale potete anche trovare la mia posizione sulla faccenda: per me, sì, attualmente basta che un film sia buono e fatto con cognizione di causa, che già questo è un bel passo avanti rispetto a, che ne so, 6 giorni sulla Terra e In the Market. È una roba in divenire, sono d’accordo, e tra qualche anno non sarà più sufficiente essere “buonini”. Ma per ora è meglio fare un passo alla volta.
E Il legame è decisamente, incontestabilmente un passo nella direzione giusta. Mi ha subito fatto venire in mente Shadow di Zampaglione. Non perché lo ricordi, ma perché, pur essendo un dignitoso horror moderno e di respiro internazionale interamente realizzato da italiani, Shadow sceglieva l’ambientazione “esotica” e i dialoghi in inglese, forse perché un film in italiano e ambientato in Italia era ancora percepito come troppo provinciale. Il legame, invece, mette in chiaro sin da subito, con un cartello prima ancora che parta il film, come la sua storia sia fortemente radicata nelle tradizioni del Sud Italia (la Puglia, in particolare), e come questo sia da considerare un punto di forza e distinzione, anziché un difetto da filmetto provinciale.
Di questa nuova attitudine dobbiamo certo ringraziare Sollima, Mainetti, Rovere e tutta questa schiera di nuovi autori che sono cresciuti con il genere e hanno capito che non necessariamente una storia italiana deve rientrare nelle categorie “commedia nostalgica”, “dramma da tinello” o “melodramma famigliare/fiabesco ambientato negli anni ’50”. Ma in parte dobbiamo anche ringraziare cose come Netflix.
Le nuove piattaforme stanno investendo molto sulla produzione locale, e stanno fortemente spingendo verso una vera globalizzazione dei contenuti. Non tutto sta riuscendo benissimo, sia chiaro, e finora gli esperimenti di serie italiane su Netflix sono più no che sì, ma l’importante è che passi il concetto che localizzare le storie non significa privarle della loro universalità. Non è un caso che proprio Netflix abbia distribuito Il legame.
Ma parliamo del film. Il legame è un film horror italiano che non fa venir voglia di CAVARSI GLI OCCHI a ogni fotogramma. È un film horror italiano girato come un film horror, con i valori di produzione giusti, dal make-up alle location, dalla fotografia al sonoro. Ecco, il sonoro, ragazzi: è una cosa FONDAMENTALE nei film dell’orrore ed era, guarda caso, anche uno dei nostri più grandi limiti fino a qualche anno fa. Ve la ricordate quella presa diretta col rimbombo che faceva sì che l’audio sembrasse registrato col cellulare dalla stanza di fianco? Per fortuna è sparita.
Questo non significa che Il legame inventi nulla di particolare. Dai rumorini viscido-crepitanti agli spaventelli con SBRAM incorporato, fino alla classica inquadratura del personaggio che sente un rumore alle sue spalle e si gira moooooooolto lentameeeeente invece di darsi alla macchia in zero secondi, l’armamentario che vi aspettate c’è tutto.
Il regista, un esordiente che risponde al nome di Domenico Emanuele De Feudis, si è fatto le ossa lavorando come assistente di Sorrentino (La grande bellezza, Loro). Ha dunque un background “autoriale”, e lo si capisce dalla confezione super-curata, ma al di là di questo non sembra esserci la fastidiosa ambizione di “dire qualcosa” usando il mezzo dell’horror. O meglio, Il legame è certamente un film di metaforoni sulla famiglia come fonte di orrori e l’incontro/scontro tra modernità e tradizione (la gente di città che torna alla campagna e ci trova i cazzi), ma è tutta roba che fa parte dell’arsenale dell’horror moderno. Come sopra, non è che Il legame inventi nulla.
Però una cosa la fa bene, ed è quella cosa che dicevamo prima, cioè declinare l’orrore in un contesto fortemente italiano sin dall’inizio, senza che questo lo renda meno “internazionale” come concezione ed esecuzione. Anzi, la dimensione regionale dà al tutto una qualità extra, “glocal”, se mi perdonate l’espressione del cazzo. Invece di inseguire stilemi americani tentando di adattarli a malo modo alla nostra realtà (e dunque doppiaggese e tutte quelle robe orende alla Ragazzo invisibile), usa l’italianità, o la “pugliesità”, come valore aggiunto in un film dal respiro universale. Senza contare che, per uno spettatore italiano, vedere ribaltato il cliché positivo del ritorno alla campagna, con cui gli Edoardi Lei ci frantumano i coglioni da dieci anni, aggiunge un livello di goduria in più da non sottovalutare.
Peccato che il film, alla fine, non sia superiore alla somma dei suoi pur ottimi ingredienti. Il legame, purtroppo, non fa tanta paura e lascia un po’ il tempo che trova. La direzione degli attori è piuttosto altalenante: la mamma di Scamarcio (Mariella Lo Sardo) recita con un tono un po’ teatrale, con quell’italiano scandito ed enfatico da film italiano “vecchio stampo”. Scamarcio è abbastanza defilato, sotto le righe, contenuto. Mia Maestro sembra vivere in un altro film, ha un tiro da grande professionista abituata al cinema americano che seppellisce un po’ tutti quanti, e De Feudis le lascia fare.
C’è poi una cosa che non mi torna: facendo due calcoli, il film dovrebbe essere ambientato tra metà anni ’90 e primi 2000. Dai costumi non si capisce tanto, ma posso anche accettare che De Feudis abbia preferito adottare un look sobrio. Ma, a parte questo, mi chiedo che senso abbia nell’economia del film. Detto in parole povere: anche se Il legame fosse ambientato oggi, non cambierebbe di una virgola. Era per togliersi di mezzo i cellulari? Bastava dire che in quelle zone non c’è campo. È per ragioni auto-biografiche? Boh, se è così allora un po’ di colore in più, un po’ di ricostruzione storica divertita non avrebbe guastato.
Per chiudere, torno a dire che sì, è vero che magari le cose si stanno muovendo più lentamente di quanto sperassimo. Ma già il fatto che nel 2020 non faccia “strano” vedere un film italiano fatto in questa maniera qua, e con risultati dignitosissimi, è un buon segno.
DVD quote:
“Per una volta, ‘Scamarcio fa orrore’ non è un’offesa”
George Rohmer, i400Calci.com
Boh… a leggervi sembra che l’horror/azione italiano lo stiano lentamente inventando in questi anni e che, fino ad ora, da noi si siano girate solo drammi/commedie familiari. Per citare un altro esempio di italianità, mi sembra che vi siate un po’ amminchiati su ‘sto vostro clichè.
Anche un po’ meno di Stanis LaRochelle, eh!
E’ un’iperbole, lo so anche io che non è proprio così al 100%. Però per me è innegabile che a un certo punto questi film abbiano smesso di essere “piacevoli esperimenti”. Nel senso che se uno faceva un action movie negli anni ’90 la “puzza” da film italiano, nella fotografia, nella recitazione, si sentiva lontano un chilometro, lo capivi alla prima inquadratura. Qui si parla – e ci metto anche Zampaglione eh – di passi avanti tecnici, da una parte, e di un maggiore “crederci” dall’altra.
Visto proprio ieri sera e, dopo una partenza caratterizzata da eccessiva gravitas (soprattutto con LA MADRE, come fatto notare nella recensione, che evidentemente doveva sembrare la cattiva, inizialmente) e da un paio di spaventerelli classici, secondo me il film decolla: poi non ti porta sulla luna, eh, ma ti fare un piacevole giro per ammirare il panorama e poi ti riporta da dove sei partito.
Non so se mi sono rimbambito, ma ho trovato convincente anche la bambina…
Anche per me la bambina è convincentissima e non mi è dispiaciuta affatto nemmeno la madre. Concordo poi con tutto il resto del commento oltre che ovviamente con l’articolo e con le considerazioni in generale fatte sullo stato del cinema di genere qui in Italia negli ultimi anni.
Beh, una volta non solo nel cinema avevamo qualcosa da dire e sapevamo farlo bene; poi se da una parte ci siamo rintanati nei “drammi da tinello” (è proprio l’esplicitazione di questo concetto, in cui mi rispecchio da almeno 20 anni, che mi ha portato a scoprire i 400 calci e non viceversa: segno che non è un cliché sul quale “si sono amminchiati”, bensì sentito diffusamente ed indipendentemente), dall’altra abbiamo spostato le produzioni in asia e perso la capacità di saper fare ciò che prima invece insegnavamo…
Ben vengano passettini verso un nuovo veccjio futuro!
Ps: ma non era la festa del grazie quella con le quaglie?
Ne ero convinto anche io, e invece no!
Era la festa del grazie, dopo la scoperta che era un plagio della festa del ringraziamento la cambiano al volo nella festa della repubblica…
Ah, vero, ecco perché le confondevo.
Dopo 20 minuti ho cambiato film . Inguardabile…..
Sai che sarebbe molto più facile prenderti sul serio se argomentassi? Chissà, magari, potresti essere utile anche a qualcuno nello scegliere se vedere il film o meno.
La ripetitività delle scene e’ incredibile, evidentemente poche idee e quindi era necessario ripetere le scene che non sono nemmeno cariche di tensione come si addice ad un presunto film horror o thriller. La recitazione e’ monocorda , sembra un documentario sulle tradizioni della Puglia. Niente di più. Forse sarebbe stato il caso di produrre un film promozione per un viaggio in Puglia o un documentario sulla vita delle tarantole.
Ohh, grazie per aver argomentato! Lo vedi che è molto meglio!
Che dirti… quello che dici, alla fine, è innegabile: l’inizio soffre di una partenza con il freno a mano, acuita dal fatto che pare che stanno a mette in scena la Medea.
Se poi non sei riuscito ad andare avanti, ti consiglio comunque di investire questi altri settanta minuti perché quello che puoi trovare è un film solido, fatto di artigianato (si può dire artigianato?), proprio quell’artigianato che molti hanno reclamato come italiano sin dal dopoguerra (e che ci eravamo un po’ dimenticati, come segnalato anche nella recensione).
Una rivoluzione copernicana? No, però, qualcosa di “piacevole” che alla fine ti lascia anche con quella sensazione di disagio, come ogni buon horror dovrebbe fare.
Il grosso problema è che una volta che vedi questo film, Netflix inizia a martellarti le scatole con “perchè non guardi anche BABY” che è il male della televisione italiana incarnato…
Cordialità
Attila
È sempre un confortante piacere vedere cineasti italiani che si dedicano a declinare le tematiche dell’horror. Ma quest’opera, pur dignitosissima e ben confezionata, poteva osare di più, a mio modestissimo avviso… Troppo pulita… Troppo asettica… Troppo elegante… Quando si ha che fare con malocchi, maledizioni, sortilegi e fatture, ci si deve “sporcare” le mani… Rimestare anche negli aspetti più fisici, “organici”, del folclore contadino… Vedere per credere gli esempi efficacissimi – perché “sporchi & cattivi” – provenienti dalla Turchia di Alper Mestçi e Hasan Karacadağ…
ahhh il sonoro dei filmacci italiani…con le portiere delle macchine che sbattono … tutti i rumori di chiavi cruscotti che cigolano quando uno guida…ma io dico in in film americano qualsiasi avete mai sentito qualcosa quando uno guida? a meno che non sia voluto ovviamente… vabbè … comunque dopo aver visto quello di Avati penso che nessun horror o simile italiano possa farmi più schifo quindi lo guarderò sicuro
Il cinema italiano, come tante altre cose italiane, è morto. Facciamocene una ragione o continuiamo a vivere miseramente di rendita
Ma quindi è il film tratto dal brano di Caparezza
“Vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Dove la notte e buia, buia, buia
Tanto che chiudi le palpebre non le riapri più
Vieni a ballare e grattati le palle pure tu
Che devi ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Dove ti aspetta il boia boia boia
Agli angoli delle strade spade più di re Artù
Si apre la voragine e vai dritto a Belzebù”
Esatto. E invece “KADAVER”, sempre su Netflix, è tratto da una sidequest (figa) di FALLOUT: NEW VEGAS.
Ma a quali film di Edorardo Leo ti riferisci sul ritorno alla campagna? Mi sono capitati di vedere qualche film con lui e non me lo ricordo un ritorno alla campagna (anche se si, molti film italiani hanno questa moralità spiccia da 4 soldi, e se non è la campagna è un road movie nel sud).
Il campione del “ritorno a” è Raoul Bova, non Leo (alla famiglia, alla campagna, all’amicizia, ai valori veri…). E alla Puglia.
Boh, non so… A me ha dato più che altro l’impressione di essere una successione di “cose che di solito si mettono nei film horror”, in modo anche parecchio fastidioso, per quanto era evidente.
Come se avessero fatto una lista che veniva spuntata man mano, quasi.
Pure la madre che a un certo punto se ne esce con un banalissimo e già sentito settordicimila volte “è lei, è tornata” per poi uscire dalla stanza con fare misterioso; a questo punto ho proprio alzato gli occhi al cielo, lo ammetto.
Certo, la bambina è molto brava, la madre, pur nella sua impostazione chiaramente teatrale, mi è sembrata comunque convincente e stranamente non forzata, e ammetto anche che Scarmacio mi ha stupita in positivo, visto che da lui mi aspettavo una recitazione molto meno naturale e molto più sopra le righe.
Al netto di tutto questo, però, il fastidio per quanto ho scritto all’inizio è stata decisamente la sensazione predominante; e mi dispiace, perché lo spunto di base era anche interessante e intrigante, ma alla fine la realizzazione non ha aggiunto niente di nuovo o significativo a quello che ogni amante dell’horror ha già visto e rivisto infinite volte.
A me è piaciuto.
Mi hanno comprato al minuto zero con le sovrimpressioni: qualcuno ha finalmente capito che con un minimo di premessa ruffiana puoi dare street cred internazionale a tutto, anche a un horror didascalico con Scamorzo, mille vecchie da teatro e ambientato tra gli ulivi del parco nazionale della Murgia.
E così ci vuole un attimo perché “sud italia” passi da posto di sfiga a luogo misterioso e intrigante dove “questi riti sono da sempre radicati – paura eh?”.
E poi Scamorzo non ha fatto nemmeno cacare, e la bambina bravissima.
Complimenti per la sigla, gruppo della madonna i The Sword
L’idea a parer mio era molto buona ma come già osservato da molti c’è un evidente problema di cast e di direzione degli attori. Il legame (haha) tra il personaggio di Scamarcio e la madre è assolutamente inconsistente. Quello tra Mia Maestro e la bambina è eccessivo. I personaggi secondari sono talmente secondari che il film non cambierebbe di una virgola se sparissero del tutto. Sono problemi macroscopici, il film si salva solo per la confezione, che è molto buona, e per il contesto magico-misterioso del sud Italia che è potentissimo e disgraziatamente sottosfruttato dalla nostra industria cinematografica.
Adesso sto sperando in una serie di film tutto al Sud, ognuno in cui si affronta lo specifico malocchio/dimonio locale.
Poi tra dieci anni parte il filone crossgenere:
– “Zombie VS Camorra” (Z-movie con una paranza di guaglioncelli sfigati che si ritrova a dover difendere le vele di Scampia da una apocalisse zombie)
– “Il Diavolo è Cosa Nostra” (metaforone thriller-horror in cui si da a capire che Satana esiste ed opera tramite la mafia)
– “Krotone: the ritual” (dramma del salotto in cui durante una cena tra parenti si esagera con la ‘nduja con conseguenza gastrointestinali da horror)