Mi rendo conto sia un passaggio logico abbastanza facile da fare, e forse anche poco consono su un sito come quello che state leggendo, ma se penso a film neozelandesi o australiani mi vengono in mente quei discorsi un po’ con la pipa in radica, tipo: “hey, quel personaggio è una diretta emanazione del paesaggio“. Avete presente? Le ragazzine di Picnic ad Hangin’ Rock che si confondono con il paesaggio fino a scomparire, gli aborigeni di Ten Canoes di Rolf de Heer che sbucano dal nulla, come se fossero sempre stati lì… (Madonna, ho già citato due film che altro che pipa in radica, madonna mia. Forse questa è la volta che mi sgamano che a me piace il cineforum, altro che il multplex! Forse è la volta buona che riuscirò a scrivere che il mio regista prefe è Tsai Ming Liang <3, altro che Michael Bay! Oddio, ma queste cose le sto dicendo ad alta voce o le sto solo pensando? Mi avranno sentito? Vabbè, fai finta di niente, vai avanti…).

Classic 400Calci
Che poi è anche un po’ il discorso degli indiani nei vecchi film western, prima che qualcuno a Hollywood facesse il precisino dicendo che non era il caso di rappresentare come dei selvaggi ignoranti violenti il popolo che avevano sterminato e chiuso in riserve per fare i loro porci comodi. Prima di Soldato Blu, gli indiani erano quella roba lì: una diretta emanazione del paesaggio. Poi, appunto, è arrivato il western crepuscolare, Corvo Rosso Non Avrai il mio Scalpo, e allora quella figura lì – l’indiano cattivo che spunta dal nulla, senza una motivazione plausibile, ma che tu sai rappresentare una minaccia perché fa parte di un territorio, di un paesaggio che sembra accoglierti materno ma che invece in realtà è ostile – è diventato il morto vivente di Romero, il mutante de Le Colline Hanno gli Occhi... Ma penso che quello sia proprio una questione di continuazione di determinate figure del cinema popolare americano. Cioè, le toglie dal western perché non vuoi fare la figura di quello che non ha capito che i tempi sono cambiati, ma le ributta poi in un altro genere perché non ne può fare a meno.

Mandrake
Questo è quello che ho pensato quando ho visto questa scena qui, all’inizio di Coming Home in the Dark. È molto bella: c’è una famigliola felice – padre, madre, due figliastri – impegnati nella classica gita fuori porta in quel della Nuova Zelanda. Sono lì che chiacchierano amabilmente quando Jill, la moglie, guarda fuori campo. Si preoccupa, lo capiamo dallo sguardo, ma non sappiamo come mai. Poi, evidentemente, diretta emanazione del paesaggio, arriva questo qui, che si mette controluce, parla con un accento incredibile, e imbraccia un fucile. Si chiama (si fa chiamare) Mandrake, come il mago che fa sparire le cose (o come Proietti in Febbre da Cavallo), e ha la faccia di un ottimo Daniel Gillies. Ed è accompagnato da Tubs (la scoperta Matthias Luafutu), un indigeno che è ancora più diretta emanazione del paesaggio di Mandrake. Ah, questo guarda… non ha mai aperto bocca in vita sua, ha una faccia che sembra una roccia. Ma una roccia disperata, di quelle rocce che ne hanno viste troppe in vita loro.

Tubs
Mandrake e Tubs sono comparsi lì, da nulla, per terrorizzare questa famigliola. Potrebbero sembrare dei comuni rapinatori, gentaglia che vien giù con la piena e che ruba le macchine ai figli di papà che vengono dalla città a fare il picnic in campagna, ma si capisce subito che c’è qualcosa di più profondo nelle loro azioni. Non sono qui solo per farti la macchina, paparino: sono qui per rifarti la vita.

Fuori Campo
Coming Home in The Dark è un thriller psicologico. Potrebbe essere considerato come una delle rare eccezioni meritevoli che ogni tanto trovate qui su questa pagine. Nel senso che non vi dovete aspettare un ritmo indiavolato o un bagno di sangue. Siamo più dalle parti dell’introspezione, dei ritmi dilatati, delle sospensioni temporali e delle improvvise esplosioni di violenza. Eppure, inaspettatamente, è un buon film. Molto buono. Il regista, James Ashcroft, è un esordiente con un po’ di esperienze teatrali alle spalle (ve l’ho detto: pipa in radica) ma sembra avere le idee chiare per quanto riguarda la sua nuova carriera nel magico mondo del cinema. Sa, in primis, come scegliere gli attori (Mandrake e Tubs sono un ottimo duo. Mi hanno ricordato un po’ Roy Scheider e Adam Baldwin in Cohen e Tate), sa come costruire la tensione, sa come dilatare il racconto per farti scoprire chi hai davanti un pezzettino alla volta. Non solo: sa anche cosa vuol dire sterzare forte in corsa per farti cadere la mascella in terra, perché alcune cose io proprio non me le aspettavo. Sa anche come si costruisce una bella sequenza appena prima del finale, utilizzando un bel set al meglio delle sue possibilità.

Bei set sfruttati bene.
Tutto bene, dunque? Più sì che no, per quanto mi riguarda. Però c’è da fare i conti con un tentativo di lanciarla lì sul sociale che rischia di rovinare un po’ questa eterna atmosfera di indecisione, di difficoltà di immedesimazione che pervade tutto il film. Fortunatamente ci pensa Tubs a risolvere per il meglio tutto. Gli basta una frase: “I hate this place“. Odio questo posto.

emanazione del buio
DVD-quote:
“Un po’ di pipa in più del dovuto. Ma ci siamo”
Casanova Wong Kar-Wai, i400calci.com
L’ho visro qualche mese fa, devo dire che mi piaque assai e che mi ha turbato non poco.
Lo dico da papà.
Non l’ho visto, ma da come lo hai presentato mi fa venire in mente “Funny Games” di Haneke
Comunque se penso al cinema Neozelandese, la prima associazione è “Once Were Warriors”, che un giorno forse sarebbe da recensire, su questi lidi. Non calciabile in senso stretto, ma quando parte la brocca a Jack the Muss è violenza pura
Mah… ne avevo letto recensioni entusiastiche che avevano fatto salire l’ hype ma a parte la sequenza feroce piazzata inaspettatamente non mi ha convinto affatto.
Per riprendere la rece di Casanova siamo ben distanti da Cohen & Tate dove avevamo attori di razza, ritmo da vendere e ferocia fisica e psicologica dall’ inizio alla fine
Io bad taste
[Eccezione meritevole n.d.a.] “Nel senso che non vi dovete aspettare un ritmo indiavolato o un bagno di sangue”.
Sulla scorta della precedente escursione sul senso di un regista nei film Marvel, mi chiedo cosa sia la “calciabilità” con questo divertente neologismo che può contenere universi. Un film calciabile ha al suo interno dei reali calci? E sangue a profusione di colore poco realistico e produttore di nessuna paura?
Chiedo una codificazione del film calciabile. Per me un film è calciabile se mi colpisce nello stomaco, mi fa male, mi urta, mi fa violenza dentro. Mi stimola dentro. Mi fa paura dentro.
Per esempio la filmografia di Ken Loach e cinema Calciabile. Se invece il senso di Cinema calciabile è puramente estetico, allora proviamo a mettere giù due righe. due fondamentali. Esempio buttato lì ” ci deve essere uno schizzo di sangue”… etc.etc.
Ken
Loach
………
Io credo che ancor prima dei generi, “calciabile” sia un film che ha al centro il corpo in un’ipotetica tripartizione intelletto, emozione, corpo. Corpo dilaniato, corpo coreografato in combattimento, corpo in azione. Eccezioni meritevoli sono sono quelle in cui caratteristiche solitamente appannaggio del corpo come prestanza, rudezza, violenza, vengono declinate attraverso il centro di gravita’ dell’ intelletto o dell’emozione.
Da vedere, ma soprattutto ascoltare rigorosamente in lingua originale.
L’ho visto diversi mesi fa, e mi turbò non poco. Non è solo quello che fa Mandrake all’inizio (un piccolo accenno al finale di “Sicario?”), ma sono anche i silenzi di Tubs, certi paesaggi, certe atmosfere, che mi mettono subito inquietudine, e qui un bravo va subito al regista, James Ashcroft. Non molta azione, ma tanta, tanta tensione.
Leggo in ritardo.
Casanova l’ho sempre sospettato che fossi un pipa in radica, ti abbraccio fortissimo, faccio coming out ammettendo che Goodbye Dragon Inn è uno dei miei prefe e spero un giorno di incontrarti da Tito sul molo che prendi un frittino.
Voglio sperare che in italiano l’abbiano pronunciato “Mandràche”, sennò tutta la calciabilità si dissolve all’istante.