Quando uno come David Cronenberg decide di chiudere un cerchio della sua impareggiabile carriera riprendendo spunti e titolo da un suo cortometraggio degli inizi, è il segnale per far partire la retrospettiva. E noi, puntualissimi, rispondiamo. Seguiteci nel nostro nuovo, imprescindibile speciale: Le basi – David Cronenberg.
«Battoni di tutto il mondo, c’è un Pollo che non potete sconfiggere: il Pollo che portate dentro…»
William S. Burroughs
Il mio aneddoto prefe su Cronenberg – il quale, a sua volta, è uno dei miei registi prefe, ma effettivamente nessuno me l’aveva chiesto quindi ciao – arriva, per forza di cose, da una persona nata anziana (nel senso buono, ovvero saggia e non vecchiadimmerda) che ha detto certe lombrosate negli anni ’80, quando (diamo agli anni ’80 quel che è degli anni ’80) era più facile andare pubblicamente fieri della propria ignoranza. Anche se, diciamola tutta, sarebbe piuttosto selvatico se sdoganassimo Lombroso nella critica cinematografica. Comunque il mio aneddoto prefe su Cronenberg l’ha scritto Martin Scorsese sul numero del gennaio 1984 di Fangoria, quando ha raccontato di averlo invitato a cena dopo essere rimasto sconvolto dalla visione dei suoi film. Scorsese aveva paura di incontrare Cronenberg perché si aspettava uno incrocio sbavante tra Arthur Bremer, l’uomo dall’occhio spento, il viso di cemento e gli occhiali dalla montatura pesante che nel 1972 tentò di assassinare il candidato democratico alla presidenza George Wallace, e Dwight Frye nei panni del folle assistente Renfield, pupilla sgranata e denti serrati in un ghigno inquietante, dal Dracula del 1931 di Todd Browning. E invece David Cronenberg si presenta affabile, cordiale e affascinante; occhi azzurri brillanti e sardonici che accompagnano un divertito sorriso sghembo e una voce calda, melliflua, piacevole. Per dirla sempre con Scorsese: al posto del mostro temuto si è presentato uno che sembra un ginecologo di Beverly Hills. Anche se si rimane con il terrore che, da un momento all’altro, debbano scoppiargli le vene ed esplodergli il cervello.
Beh, caro Martin cortese a modo tuo, benvenuto nel magico mondo di David Cronenberg. Quello in cui niente è reale e tutto e permesso. Ma siccome niente e tutto sono la stessa cosa, vale anche il contrario. Un mondo d’autore in cui non ci si allontana mai troppo dallo stesso film, dalle stesse ossessioni modulate in maniera differente ma assonante. Il cinema di Cronenberg è un triangolo morbosissimo e tremendamente promiscuo fra mente, corpo e macchina; un rapporto che è lo stato di natura dell’uomo contemporaneo e che viene puntualmente alterato dall’infezione di un virus, da un agente patogeno che può provenire dall’interno come dall’esterno e che, trasformando e manipolando la carne la psiche e il metallo, finisce con il creare qualcosa di nuovo. Il processo di creazione è sempre alla base dei parossismi di Cronenberg, che sia sotto forma di mutazione, gemmazione, fusione, allucinazione. Se la mettiamo così, quel cabaret di droghe che è Il pasto nudo diventa (paradossalmente) uno dei film più schietti e diretti del canadese, un viaggio – per quanto lisergico, quindi deformato, e a spirale, che si arrotola su se stesso – nei meandri perversi del processo creativo di un artista e di quanto in là egli o ella si possa spingere nell’esplorazione di quegli anfratti lasciati sfitti dal pensiero lucido. Sigla psichedelica!
Un accenno di trama, per dare del contesto. New York, 1953. William Lee è amico di scrittori, ma non è uno scrittore. Vorrebbe esserlo, ma non gli riesce. Dice che secondo lui, che ha smesso di scrivere quando aveva dieci anni perché era troppo pericoloso, bisognerebbe disinfestare ogni pensiero razionale. Non sorprenderà sapere che William Lee ha un ottimo rapporto con le droghe. E anche con la disinfestazione, visto che di mestiere stermina scarafaggi a pagamento. Sapete qual è il colmo per Bill, disinfestatore letterato? Rimanere senza veleno per scarafaggi perché Joan, sua moglie, se lo inietta nelle tette mischiato con del lassativo per bambini dicendo che è uno sballo più sballo delle spremute d’arancia e dei bicchieri di cristallo: uno sballo kafkiano, che ti fa sentire come un insetto. Bill ci casca e lo prova, rimanendoci sotto con la stessa facilità di un Andrea Diprè qualsiasi, ma con meno accesso ai social network. La droga comincia a parlargli sotto forma di scarafaggi giganti che tentano di convincerlo di essere un agente segreto, la cui missione è quella di uccidere Joan in quanto spia della temibile Interzona Inc.. Bill cerca anche di disintossicarsi dal veleno, ma il meglio che riesce a combinare è farsi dare da Roy Scheider della polvere nera di millepiedi acquatico gigante brasiliano essiccato; e niente di buono è mai venuto fuori da Roy Scheider che ti allunga della polvere nera di millepiedi acquatico gigante brasiliano essiccato, che oltre tutto sa di formaggio. William e Joan, strafatti, giocano a Guglielmo Tell. Bill uccide, per sbaglio?, la moglie e fugge alle autorità rifugiandosi nell’Interzona, porto franco – ispirato ai trent’anni di zona internazionale di Tangeri – in cui tutto è lecito e in cui l’ex disinfestatore scopre finalmente la propria vena artistica, fatica ad accettare la propria omosessualità, ha rapporti bizzarri e fondamentali con alcune macchine da scrivere senzienti e blattomorfe, rivede Joan che però adesso è un’altra Joan, scopre i turgidi segreti sessualmente fluidi dell’Interzona e ricomincia tutto da capo, ma stavolta con una consapevolezza ulteriore.
Questo qui è un film che sa anche essere un buon noir spionistico drogato. Ma non è solo un buon noir spionistico drogato. Il pasto nudo di Cronenberg è William S. Burroughs. Non parla di Burroughs, non prende ispirazione da Burroughs: è Burroughs. Non tanto e non solo perché è ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore beat, adorabile follia pervasa di furor sacro e sostanze psicotrope; ma più che altro perché Cronenberg prende il romanzo, lo butta via (a suo stesso dire) e trasforma l’adattamento di Pasto nudo nella storia di Burroughs – che in La scimmia sulla schiena chiama il protagonista, suo alter ego, William Lee – alle prese con la stesura di Pasto nudo. È la storia – tra finzione tratta dai romanzi e realtà tratta dai racconti. Distinzione che, come si è già detto, conta la giusta fava – di come un uomo problematico non sia in grado di accettare se stesso e il proprio ruolo di creatore; di come la sua mente cosciente faccia i salti mortali per impedirgli di accedere a quell’inconscio che libererebbe l’atto creativo; del trauma che l’inconscio ritiene necessario per scatenare il processo. E sembra davvero di osservare Bill mentre si guarda dentro, confuso e drogato, raccontandosi. Nella prima parte del film, Bill è il più elegante di tutti. È quello che parla meglio, apparentemente il più posato. Quello esteticamente più in ordine. Ma è anche il più tossico di tutti. Probabilmente stiamo guardando la sua versione dei fatti, quella in cui ammiriamo la sua proiezione di se stesso sulla storia. Quella in cui lui fa la figura più affascinante. Difatti lo osserviamo procedere per flash e non vediamo mai le cose che lui stesso non ricorda quando è tudofado.
Il pasto nudo è, in buona sostanza ma in maniera decisamente informale, un biopic su Burroughs fatto da uno che i biopic, come genere di narrazione, probabilmente li schifa. Burroughs è stato un omosessuale represso e appassionato di droghe, la cui carriera da scrittore (a suo stesso dire) si è attivata solamente dopo l’accidentale(?) morte della moglie causa routine Guglielmo Tell. Tutto vero o apparentemente tale. È una versione della morte della moglie di Burroughs che è uscita dalle labbra dello scrittore almeno una volta e poi ha preso vita, impossibile da dimenticare anche se William S., in seguito, ci ha tenuto a ritrattare optando per il meno impegnativo “ero sbronzo, mi sono inciampato, la pistola è caduta e il proiettile vagante ha pigliato Joan in testa”. È un biopic su Burroughs che è anche una sessione di terapia e di catarsi fallita, oltretutto fatta per interposta persona e quindi spersonalizzata, universalizzata. Dopo la morte di Joan nel film, voluta (consciamente o inconsciamente) o meno, per Bill inizia un percorso in parte di espiazione, in parte di esplorazione di questa nuova ispirazione mai provata prima, ma soprattutto di dolorosa accettazione del fatto che, in realtà, non sia mai davvero esistita un’alternativa: doveva essere così e così sarà in qualsiasi allucinazione indotta dalle droghe e dai sensi di colpa, alla ricerca di redenzione e al di là della negazione. Ed è anche una lunga esplorazione dell’omosessualità latente, dei sensi di colpa, della vergogna, della fluidità sessuale e della chiusura conscia a tutte queste perversioni – così le vive il protagonista – che viene scassinata dal maroso violento, allucinatorio e incontrollabile dell’inconscio, la cui diga viene abbattuta with a little help from the droghe. Non so, amici. Ma la sostanza terribile di cui si parla nel film, i cui sintomi da astinenza sono sconosciuti e spaventosi, potrebbe benissimo essere l’eterosessualità, che infatti a Bill è stata “imposta” dai suoi amici, dalla società e dal Super-io. Lui stesso arriva a dire che, nella normo-realtà recitata in cui è sposato con una donna e ha un mestiere quadrato, quello di disinfestatore è il miglior lavoro che abbia mai avuto. Ma solo perché quella posa teatrale e sociale è molto più facile da mantenere, secondo lui, rispetto all’essere totalmente sé stesso: scrittore, ovvero creatore, e omosessuale, ovvero in linea con le proprie pulsioni senza sentirle sbagliate. Lo snodo di questa lettura è magnificamente portato a termine quando Kiki, ragazzo di vita indigeno dell’Interzona, salva Bill da se stesso, rianimandone l’ispirazione creativa e la carriera da scrittore intrattenendo insieme a lui una sana conoscenza biblica.
Con Il pasto nudo Cronenberg gira, secondo me, uno dei film a cui è più emotivamente e intimamente legato. Un omaggio – che se fosse il nome di un piatto stellato avrebbe dentro la locuzione “a modo mio” – all’atto e al processo creativo, alla vita interiore di un artista. Una botta in testa che lascia sulle retine residui giallo ocra, lo stesso colore della droga, dell’aria di Interzona e di certe incarnazioni dello psicocinema lynchiano. E soprattutto, quello che Burroughs ha fatto con le droghe, sulle droghe, tramite le droghe, grazie alle droghe?, Cronenberg lo fa senza, razionalizzando fino all’estremo ma rispettando il mistero e l’arte. Liberando l’inconscio tramite uno sforzo consapevole e focalizzato. Mostrando ciò che normalmente sarebbe impossibile mostrare.
Blatta per scrivere quote:
«Un pasto nudo e con un cacchio enorme»
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Bonus: M. Butterfly (1993)
Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo. E non dico che sarà la pelle dello scroto di Jeremy Irons a provocare quell’incendio a causa della frizione con lo sfintere non lubrificato di un agente segreto cinese travestito da soprano che l’inconscio di Irons si rifiuta di accettare come uomo. Non direi mai una cosa talmente crassa. Stiamo parlando di Cronenberg che rilegge Puccini, una roba così intellettuale che potresti giocartela in qualsiasi salotto buono per fare le belle figure. E le belle figure non si fanno immaginando un torrido rapporto omosessuale non protetto e non lubrificato. Credo. M. Butterfly è il mio personalissimo guilty pleasure cronenberghiano, il film che all’interno della sua clamorosa filmografia viene forse calcolato di meno. Ma quel finale geniale, con il ribaltamento di generi rispetto alla Madama Butterfly di Puccini, io ce l’ho ancora che mi gira in testa da più o meno quindici anni. E allora perché viene calcolato meno? Perché, effettivamente, è un sandwich che, fra le due perfette fette di pane del primo atto e del finale, è infarcito in maniera quasi compilativa. Perché il ribaltamento di un immaginario operistico, per quanto aggiornato alle ossessioni sempre attuali di Cronenberg, è una faccenda che ormai può interessare davvero a poca gente. E infine perché certe cose il David le aveva appena fatte, sensibilmente meglio, ne Il pasto nudo. Anche M. Butterfly gioca con la realtà della cronaca – la storia dell’attaché francese che si fa infinocchiare da una spia cinese en travesti è molto vera – e con quella fittizia di una tradizione culturale, che se qui è quella dell’opera lassù era quella della Beat Generation; e poi si interroga nuovamente sulle capacità dell’inconscio di formare/creare una realtà accettabile per la mente conscia, anche (e soprattutto) laddove il primo si impegna a negare un tratto identitario che una persona non è in grado di sostenere solo con la seconda. È sempre un bel trip, M.Butterfly. Ed è un testamento ai talenti dell’essere umano di sesso maschile, in grado di atteggiarsi in maniera così profondamente e intensamente arrogante insistendo nello stolido e testardo rifiuto delle proprie emozioni. Piuttosto che accettarci per quello che siamo, preferiamo bruciare il mondo.
Comincia la parte piu’ complicata, con Cronenberg.
Ma anche quella piu’ interessante.
Ovvero quando e’ riuscito a mettere su pellicola romanzi ritenuti impossibili da filmare.
Questo e’ un vero e proprio spaccato della vita di Burroughs.
Capolavoro.
Fermi tutti! Ma è la stessa storia del mignotto risucchiato in un’altra dimensione dal buco nero supermassiccio che balla nel dancing delle pulci ammantate di mistero! (vedi EELSTT)
“Ci sono almeno due cose sbagliate in quel titolo”
Uno dei miei film preferiti di Cronenberg preferiti in assoluto, superiore anche ad Exsistenz dove il nostro temporeggia un pò troppo, ma comunque Cronenberg non ne ha sbagliato uno di film. Non è poco.
Qualche pazzo l’aveva mandato in tv 25 anni fa almeno, terza serata. E io ne avevo 18 di anni. Roba da denunciarli, ho dovuto scoprire tutto, Burroughs, la Beat Generation, gli hippies, Height-Ashbury, giù giù nella tana del bianconiglio fino ad Hunter Thompson alla ricerca del sogno.americano. Cronenberg mi ha salvato e rovinato la vita.
Bel pezzo ma un po’ deluso dal “bonus”.
Credo di essere l’unico che ama tantissimo “M Butterfly” e invece ha un opinione un po’ fottesega di “Il pasto nudo”
“Il pasto nudo” e “M. Butterfly”, doppietta devastante! La prossima volta, poi, tocca ad uno dei miei film preferiti: “Crash, non quello di Paul Haggis”.
Ok, nel primo commento sono stato frettoloso, ma tenevo da fare.
Dicevamo…Cronenberg si cimenta con gli autori maledetti della beat generation.
Dopo il film, comunque, ho recuperato il romanzo. Per rendermi conto che il nostro David ha barato un pochino.
Trasporre letteralmente l’opera era improponibile, del resto.
Perche’ per quanto suggestiva, a me e’ sembrato di leggere i deliri di un tossico all’ultimo stadio.
Anche se il discorso sulla cosiddetta algebra del bisogno, su cui di basa lo spaccio e il consumo di droghe, mi era piaciuto.
Quindi Cronenberg pesca anche da altre opere, e dalla biografia piu’ o meno veritiera dello scrittore.
Il rapporto con le droghe e l’omosessualita’, l’amicizia fraterna con Ginsberg e Kerouac (perche’ I due tizi del film sono loro, cosi’ com’e Lee e’ l’alter ego dello stesso Burroughs) e l’atmosfera tipica della filosofia Beatnik. Che nonostante dalle sue ceneri sia nato il movimento hippie si distingueva per l’atteggiamento cinico, fatalista e nichilista. Almeno in egual misura di quanto erano (almeno presunti) solari, ottimisti ed espansivi quelli venuti dopo.
E getta anche un’interessante analisi sui meccanismi della scrittura, sotto i chili di visioni e creature allucinanti e allucinate.
Abbondanti dosi di Kafka, con evidenti rimandi alle metamorfosi e agli scarrafoni che compaiono un po’ ovunque.
Sorvolando sui millepiedi, e sulla mutazione donna/uomo di Benway (nascondiglio geniale), la mutazione croneneberghiana qui avviene con le macchine da scrivere, autentiche estensioni di chi le utilizza che trasmutano a seconda della loro indole.
Le Clark Nova e le Martinelli diventano insetti che parlano coi loro ani, anche perche’ le fauci sono occupate dai tasti. E in quanto insetti, come diceva Brundlemosca, ferocemente possessivi e territoriali. Anche nei confronti dello scrittore che considerano loro territorio e proprieta’. Al punto che arrivano ad ammazzarsi a vicenda.
Le Mugwump (presumo che siano i Moscibecchi descritti nel libro) fatte a Foggia dei mostri che alla fine vengono appesi a testa in giu’, e dai cui corpi si ricava droga ancora piu’ buona. E che se gli piace cio’ che scrivi letteralmente eiaculano dalle protuberanze della testa.
Ma la migliore resta la Muhjahiddin, che durante il sesso comincia a pulsare e a diventare organica come le vhs di Videodrome, e che espelle una creatura ributtante e tentacoluta che copula incessantemente.
Un plauso al fido Chris Walas per gli effettoni speciali, comunque.
E conclude il tutto l’uccisione della moglie o eventuale surrogato di turno che di fatto rappresenta la miccia, la molla che fa scattare il processo creativo che porta alla stesura di un nuovo libro.
Un vero delirio, e alle volte molta roba che mostra non ha effettivamente senso.
Ma ha forse senso, lo scrivere stesso?
Esternare agli altri roba che forse si farebbe meglio a tenere per se, incuranti delle conseguenze?
Ha ragione piena Lee, quando dice che e’ pericolosissimo.
E paragonabile a un viaggio dentro al proprio personale iperuranio, dove si fonde tutto quello che abbiamo appreso. E che l’inconscio ha provveduto a macinare a dovere.
Si solca l’ignoto, nel tentativo di attingere e pescare qualcosa da riportare indietro. E ogni volta si va sempre piu’ al largo, e diventa piu’ faticoso.
E si ritorna stanchi e sposati.
Ma soprattutto…una volta che inizi, bravo o meno che sei, non riesci piu’ a smettere.
Come con la droga.
Prima di chiudere, private a dare un’occhiata alla locandina giapponese del film.
Bellissima e inquietante, davvero.
Mi scoccia rispondere a un commento così ben articolato solo con una cazzata, ma ci tenevo a dire che quando ho letto delle Mugwump fatte a Foggia ho riso molto. Grazie
Sorry, colpa della fretta e della tastiera.
Ma a rileggerla ho riso pure io.
Lapsus che in un film bizzarro come questo calzano a pennello, tra l’altro.
Hai scritto un bellissimo commento, e ho anche voluto dare un’occhiata alla locandina : se intendi quella con un lenzuolo che copre apparentemente un Homo sapiens che amoreggia con uno scarafone, capisco perché dici che è inquietante
Sì, vabbè
Sono entrato in quel novero di persone che voleva rispondere ad un commento (di Redferne) e invece ha creato un commento nuovo
Yes, proprio quella.
Con gli ideogrammi che cascano, quasi un rimando alla tecnica del “cut – up” (mischiare in modo casuale pezzi di scritti differenti ma forse trattati il medesimo argomento, convinti di riuscire a trovare un senso logico) utilizzata da Burroughs.
Visti entrambi una volta sola nei primi anni ’90, enorme mea culpa.
Momento Amarcord: di M.Butterfly venni a conoscenza leggendone la recensione sul primo numero della rivista DUEL da me comprato… quasi trent’anni fa…