Sigla!
Da bambino, il mio più grande eroe era Lee Majors, e la mia serie preferita di Lee Majors non era L’uomo da sei milioni di dollari, ma Professione pericolo. Non mi ricordo assolutamente un cazzo della serie, a parte la premessa: Majors interpretava Colt Seavers, uno stuntman che, per arrotondare, faceva l’investigatore privato. Un po’ tipo Mitch Buchannon in Baywatch Nights. Non so onestamente nemmeno per quale ragione proprio Lee Majors mi fomentasse così tanto, ma posso avanzare un’ipotesi: era una specie di pupazzone dei G.I. Joe semovente, praticamente Big Jim in persona. L’americano con la mascella quadrata, lo sguardo ironico di chi è sempre dieci mosse avanti a tutti e non ha paura di niente/ha visto tutto. Il classico eroe che da bambino identifichi in tuo padre o tutt’al più vorresti come zio cool.
Fast forward a 40 anni dopo: nelle sale esce The Fall Guy, il nuovo film del nostro amico David Leitch, adattamento molto libero della serie (creata, vale la pena ricordarlo, da quel mandrillone di Glen A. Larson, autore di Battlestar Galactica, Magnum P.I. e Supercar). E per “molto libero” intendo che, a parte i nomi dei protagonisti (uno e mezzo, a essere proprio generosi), e il generale svolgimento nel mondo del cinema hollywoodiano, non c’entra veramente un cazzo con la serie originale, al punto che pure i nostri amiconi Titolisti Italiani™ hanno scelto di non tradurre The Fall Guy con Professione pericolo, ma di lasciare direttamente il titolo originale. “Chi mai”, si saranno chiesti, giustamente, “andrà a vedere ‘sto film perché fan di una serie poco nota di quarant’anni fa?”. Eccomi qua!
Dai, non è proprio vero, penso sarei andato a vedere The Fall Guy comunque, ma il fatto di avere nell’imprinting del cinema di menare la serie di Larson mi ha dato quella spinta in più. Il resto l’ha fatto l’accoppiata David Leitch/Ryan Gosling. Da una parte c’è un regista che, con John Wick e Atomica Bionda, ci ha dato molto, e a cui siamo ancora disposti a dare il beneficio del dubbio nonostante alcune scelte di carriera non proprio felicissime, perché anche nei prodotti più derivativi e studiati a tavolino dimostra comunque la sua solidissima mano. Dall’altra c’è un attore che a me semplicemente fa molto ridere.
Ricordate quando Ryan Gosling faceva i film seri? Neanche io. Eppure, oh, l’Internet mi dice che è successo: Le idi di marzo, Come un tuono, Drive, Solo Dio perdona, La La Land, Blade Runner 2049, The First Man. Il Ryan ci ha veramente provato a piazzarsi come credibile attore drammatico, poi è arrivato Shane Black, gli ha detto: “No, tu fai ridere”, e, siccome Shane Black ha sempre ragione su qualsiasi cosa, Ryan ne ha preso atto e ha agito di conseguenza. Fu così che si scoprì che Ryan Gosling era naturalmente portato per la commedia, dotato di tempi comici pazzeschi e di una fazza da schiaffi unica nel suo genere, unite a una versatilità sicuramente superiore a quella di un altro attore che ha scelto la sua stessa strada, Chris Hemsworth. Per Ryan lo spartiacque è stato Barbie, il film che gli ha permesso di vincere un prestigioso Sylvester e lo ha trasformato in un meme vivente.
Ryan Gosling non è, insomma, il nuovo Lee Majors. Majors rappresentava la vecchia guardia, era il maschio bianco virile, l’uomo che non deve chiedere mai. Gosling è l’uomo moderno, che non nasconde le sue fragilità e non si vergogna di vestirsi colorato. In una parola: metrosexual. Il suo Colt Seavers è praticamente Ken di Barbie in versione stuntman nel “mondo reale”: là cantava “I’m just Ken”, dando voce all’ansia da prestazione di tutti gli uomini cresciuti col mito della virilità a tutti i costi. Qui piange in auto ascoltando Taylor Swift dopo aver scoperto che forse la sua ex non lo vuole più. In più di un momento, specialmente quando Colt interagisce con il collega/migliore amico Dan Tucker (il sempre ottimo Winston Duke), ho pensato a Terence Hill. Al di là delle somiglianze fisiche, anche Hill è stato in grado di costruirsi un personaggio da riproporre con successo film dopo film, e Gosling sembra avviato su questa strada. Con quanto successo lo scopriremo tra qualche film: ci romperà i coglioni o ci conquisterà? Per ora a me sta simpatico, ma riconosco che alla lunga potrebbe diventare stucchevole come un Johnny Depp qualunque.
D’altro canto c’è già stato un film in cui la dinamica tra Ryan Gosling e la sua co-star ci ha ricordato Bud Spencer e Terence Hill: sto ovviamente parlando di The Nice Guys. È palese che The Fall Guy (pure il titolo è simile, a ben vedere) aspiri a essere un film di Shane Black, e forse non è un caso che a scriverlo sia stato chiamato Drew Pearce, che con Black ha lavorato ad Iron Man 3 (e, ok, ha scritto per Leitch anche Hobbs & Shaw). Aspira ma non ci riesce del tutto, per ovvi motivi: Drew Pearce non è certo Shane Black, e David Leitch fa proprio tutto un altro tipo di cinema. Eppure l’idea è quella: action con protagonisti che fanno battutine sagaci e si prendono per il culo da soli. A questo Pearce e Leitch aggiungono un elemento rom-com fortissimo, preponderante. Lo ha già detto il Capo e ha perfettamente ragione: The Fall Guy è prima di tutto una rom-com e in seconda battuta un action. Non è un film d’azione con elemento romantico, ma una rom-com con elementi action, con tanto di I Was Made For Lovin’ You dei Kiss come tema portante della colonna sonora. Mentre lo vedevo sono arrivato a pensare: questa è per forza un’eccezione meritevole.
Se non è del tutto così è perché, bisogna ammetterlo, David Leitch ha ancora una marcia in più rispetto ai colleghi nella gestione dell’impianto action. The Fall Guy è diretto da dio, le scene di botte (quella allucinata nella discoteca, con le luci al neo stile Atomica Bionda, su tutte) e gli inseguimenti sono una goduria, girati tutti come si deve, chiari e drittissimi. Leitch è un ex stuntman e si vede chiaramente che voleva usare The Fall Guy per parlare dei colleghi, della loro visione del mondo in un’industria che idolatra le star e tende a dimenticarli. Siamo pronti a fare il tifo per un attore che rivela di farsi gli stunt da solo, sapendo che nella migliore delle ipotesi sta ingigantendo la cosa (a meno che non si chiami Tom Cruise), ma non siamo in grado di ricordare i nomi di coloro che quelle robe difficili e pericolosissime le fanno ogni singolo giorno della loro vita per portare a casa il pane. Eppure, ci dice Leitch, il loro apporto a un film è altrettanto, se non più importante di quello delle star che stanno in cartellone. Cosa sarebbe stato Mad Max: Fury Road senza Guy Norris, stunt coordinator, settantenne come George Miller all’epoca delle riprese, che fece schiantare la Blindocisterna nel deserto?
Leitch ci dice questa cosa in due modi: da un lato creando il personaggio di Tom Ryder (Aaron Taylor-Johnson), superstar viziata ed emblema perfetto della mascolinità tossica, che maschera la sua insicurezza proclamando di farsi gli stunt da solo mentre in realtà è un codardo. Ryder è la summa di tutti i mali di Hollywood comodamente distillati in una sola persona, la controparte perfetta della sua controfigura Colt Seavers. Dall’altro, Leitch fa letteralmente dire ai personaggi e al film le cose che gli stanno a cuore, tira in ballo la Hollywood post-scioperi del 2023, l’uso dell’intelligenza artificiale e del deepfake al cinema, l’utilizzo della CGI come alternativa facile agli stunt reali (tanto chi vuoi che si accorga della differenza?) vs. il dibattito sul riconoscimento degli stuntmen agli Oscar.
È ovvio da che parte stia Leitch: non c’è storia, la CGI è il male e gli stunt veri, pericolosi e sudati sono il bene. Addirittura, sarà uno stunt molto complesso a rivelare, nel finale, la verità circa il complotto su cui Colt Seavers si è ritrovato a indagare. Da questo punto di vista, The Fall Guy è un film molto manicheo, che celebra senza remore il cinema concreto, fatto a mano, e condanna la falsità imperante nei blockbuster hollywoodiani. Fa ridere che a farlo sia un blockbuster hollywoodiano, un film-prodotto tratto da una serie TV e interpretato da mega-star, ma Leitch sembra rendersene conto e, quasi a mo’ di scuse, arriva a denunciare apertamente i product placement – un’excusatio non petita che gli diamo buona, perché è fatta con ironia.
Questo conservatorismo guascone è bilanciato, per il resto, da una visione più progressista, specialmente sul ruolo della donna nell’industria hollywoodiana: Emily Blunt interpreta una nuova versione della Jody Banks di Heather Thomas, che non a caso si chiama in modo un po’ diverso, Jody Moreno. O meglio: il fatto che si chiami “Jody” è un puro omaggio alla serie, perché per il resto questa Jody è un personaggio completamente nuovo. Tanto per cominciare non è una stuntwoman, ma un’ex operatrice diventata regista (di Metalstorm, un film che ruba titolo e tagline a un vecchio film di Charles Band, ricorda Dune e ha un logo a metà strada tra Metallica e Iron Maiden <3). Non è neppure una damigella in pericolo: quando deve farlo, sa menare e difendersi. Il film evita accuratamente, poi, di costruirle intorno l’ovvia sottotrama della regista inesperta che fatica a farsi valere: il suo status all’interno della produzione non viene mai messo in discussione da nessuno, se mai i problemi sono altri, sono dovuti tutti alla star maschile e lei è invece la forza che tiene insieme una baracca traballante. Anche Jody ha la sua controparte in Gail Meyer, la produttrice veterana (interpretata da Hannah Waddingham, fantastica scoperta di Ted Lasso), maneggiona all’inverosimile, disposta a tutto pur di portare a termine il lavoro. Se da un lato è un po’ scontato questo confronto uomo/uomo, donna/donna, dobbiamo ricordarci che non stiamo vedendo un indie di denuncia, ma un grasso grosso filmone commerciale.
Non tutto è riuscito: ad esempio, sarebbe stato bello se Pearce e Leitch avessero dato a Tom Ryder una maggiore personalità, anziché limitarsi a descriverlo come un bamboccio bidimensionale, perché se fosse stato più definito forse avremmo riso di più. The Fall Guy va poco per il sottile, purtroppo, e incontra spesso momenti scontati e già visti. Non ha veri guizzi di genialità, ma si limita a seguire una serie di trend e farlo nel modo più corretto e meno divisivo possibile. A un certo punto, poi, si infiacchisce considerevolmente e viene tirato su da un finale con qualche buona idea, anche se non riesce mai a scrollarsi di dosso la puzza da gialletto televisivo. Eppure, se non altro, cerca di raccontarci il dietro le quinte dei film di Hollywood dal basso, dal punto di vista della manovalanza e degli artigiani che fanno il cinema per lavoro, dicendoci che i veri eroi sono loro. Mi accontento.
Sigla finale!
P.S.: Questo pezzo, la sigla della serie TV, è usato anche nel film sui titoli di coda, dove viene dato molto spazio alla lavorazione del film e ci vengono mostrati gli stuntmen al lavoro. Eppure, nonostante il messaggio del film sia quello di dare un nome e un volto a questi professionisti, e nonostante ci venga mostrato Ryan Gosling in compagnia dei suoi stuntmen, tra cui Logan Holladay e Justin Eaton, i loro nomi non vengono messi particolarmente in evidenza nei credits. Peccato.
Mascolinità tossica quote:
“Più Terence Hill che Lee Majors”
George Rohmer, i400Calci.com
Ma infatti secondo me questo film ricorda per certi versi sia last action hero di McTiernan ( anche lì gli spunti metanarrattivi non venivano sviluppati approfonditamente a vantaggio dell’azione) sia la trama gialla di un episodio da telefilm anni 80, tanto che il trucco finale venne usato in una puntata di hazzard. Per me comunque, sulla scala dei film action, questo film è un 7 e mezzo/8
Comunque io a quindici anni volevo fare il cascatore per colpa (merito?) di Professione pericolo.
Mi sono divertito un sacco con questo film e, a sorpresa, forse addirittura più di me si è divertita mia figlia quindicenne (lei anche perché “OMG! C’è Taylor! Sshhh, non parlate… C’È TAYLOR!”)
Madonna raga io sto film non vedo l’ora di non vederlo.
Dai, gli si perdona tutto. È talmente cute and exciting!
Dal lato action è un film nella media. Non brutto eh, nella media.
Ma dal lato commedia questo film è spettacolare, si ride dall’inizio alla fine soprattutto per la descrizione del mondo del cinema visto da dietro le quinte. Poi ci metti due dei migliori attori della loro generazione (Gosling e la Blunt), ma aggiungerei che pure Taylor-Johnson funziona benissimo.
Un film leggero? Sì, ma da quand’è che la leggerezza dovrebbe essere un problema? Mi rivedo tutta la vita questo rispetto alla pretenziosità di un “Civil War”
Eppure sembra che sarà un floppone .
Professione pericolo rulez.
C’è Emily Blunt, e tanto mi basta.
Più seriamente, il film è carino, molto in linea con Bullet Train. Simpatico e divertente, senza pretese di eccellenza. Certo a volte è un po’ di grana grossa, sia dal lato rom-com sia da quello action, ma è compensato da sequenze più riuscite, ad esempio il piano sequenza iniziale e il brainstorming in split screen tra Gosling e Blunt.
Se si sta al gioco si finisce la visione soddisfatti.
Aspettavo questa rece! Visto (inconsapevolmente) in anteprima nazionale il 26 aprile.
Eccezzione meritevolissima, in quanto una rom-com ma con tutte le botte, le esplosioni e gli inseguimenti al posto giusto come avete letto, in più si ride e la Blunt si guarda sempre tanto volentieri!
Ah, un sempre grazie ai 400 Calci per avermi fatto scoprire che il film fosse tratto dal telefilm Professione Pericolo, che io proprio non avevo idea e nemmeno ricordavo esistesse.
Ryan Goslin mi pare abbia iniziato con Young Hercules, che era proprio un misto di umorismo e azione. Per il Ryan forse è un po’ un ritorno alle origini.
Ma infatti anche secondo me ha fatto il giro: è partito con quello e con i canali inquietanti della Disney, si è voluto smarcare con i film “seri”, e adesso è tornato alle origini
Se sostenere che “l’uso di CGI e AI al posto degli stunt sia il male” è una posizione conservatrice, chiamatemi pure John McCain. Al di là del fatto che spesso e volentieri il risultato finale è veramente brutto (l’esempio più lampante e ridicolo il recente The Flash, ma anche un decennio di MCU non scherza), è una tendenza che mette a rischio il lavoro di un sacco di gente. Ma, evidentemente, non sono progressista quanto i tech-bros di OpenAI.
No, sul fatto che l’azione girata dal vero è meglio siamo d’accordo, altrimenti non saremmo qui. Però ci sta anche la via di mezzo, mentre questo film è bianco/nero sul discorso.
A me è piaciuto, mi ha divertito molto. Però a me era piaciuto anche Bullet Train quindi forse sono io che vado d’accordo con il modo che ha Leitch di fare cinema ultimamente.
Per il resto boh, mi sembra che ci sia un po’ troppo overthinking intorno ai temi che il film vuole sollevare: oltre a dire “Stunts have feelings too” non credo ci sia molto altro da grattare su cui interrogarsi. Fortunatamente, se posso.
se ti riferisci al discorso sul portare gli stuntmen agli Oscar è una roba su cui Leitch e soci se la menano (giustamente) da un po’, è in arrivo persino un reality/documentario e sono in trattative attive con l’Academy
No, quel che intendevo è proprio che tutta la parte che riguarda la manovalanza del cinema è l’unica che (imho) merita ragionamenti, invece passaggi come quello in cui George dice: “[…] Questo conservatorismo guascone è bilanciato, per il resto, da una visione più progressista, specialmente sul ruolo della donna nell’industria hollywoodiana[…]”, secondo me caricano un po’ troppo di aspettative un film come questo.
Salve a tutti.
I nostri amici titolisti sì, hanno fatto bene a lasciare «The Fall Guy» in originale; anche perché «Professione Pericolo», al cinema, era già stato usato per adattare «The Stunt Man» di Richard Rush, 1980 (un anno prima della serie Tv, nella cui sigla sarebbe stato visivamente citato), con Peter O’Toole nel ruolo di un regista egolatrico, tendente al delirio di onnipotenza, e Steve Railsback in quello di un Viet-vet fuggitivo dalla polizia, disposto a nascondersi nella di lui crew appunto come cascatore “per caso” (leading-lady, sia del film che del film-nel-film, la divina Barbara Hershey).
Però sull’edizione nostrana del nuovo David Leitch non ci sarebbe stato affatto male un «Professione: Pericolo!» a guisa di sottotitolo (tra parentesi, certo, e in corpo tipografico meno vistoso).
Oltre tutto, quei due concetti sono proprio al centro di un gustoso botta e risposta fra Jody/Emily e Colt/Ryan:
– Dobbiamo essere professionali.
– “Professionale” è il mio secondo nome.
– Credevo che il tuo secondo nome.fosse “Pericolo”…
– Quello è il mio nome d’arte.
E non è certo una “localizzazione” per strizzare l’occhio ai fan italiani – quorum ego, si è capito – del telefilm di Glen A. Larson.
Non essendo ancora stata proiettata, al multiplex dove vado, la versione originale del film, ricopio dalle quotes di IMDb:
– I’m the director. You’re a stunt guy.
We need to keep it super profesh.
– “Profesh” is my middle name.
– You said your middle name was “Danger”…
– That’s my stage name.
Dico “ubi Majors minor cessat” per gusto dei giochi di parole e perché, in effetti, ho sempre adorato la Roger-face (espressione da voi coniata, durante la rassegna bondiana) esibita da Lee Majors / Colt Seavers, ben evidente nella foto sopra: stesso doppiatore di Roger Moore in OO7, non a caso, l’immenso Pino Locchi.
Ciò non toglie che con questo libero adattamento, per il grande schermo, io mi sia divertito molto e che molto abbia empatizzato sia con Ryan Gosling che con Emily Blunt.
Avrei magari desiderato un po’ più screentime, e più riconoscibilità, per Teresa Palmer; al cui «Warm Bodies» del 2013, qui con l’invasione aliena al posto dell’apocalisse zombie, sembra voler alludere l’ironico messaggio tipo “Amor omnia vincit”.
Ma è comunque un pollice alzato anche così, da parte mia. E spero possa diventare, “Against All Odds” (momento splendido al karaoke), un doppio dito medio, alzato, per gli analisti che hanno – a mio avviso – fatto turbativa di mercato gufando «The Fall Guy» a ridosso dell’uscita: con il passaparola deve diventare un successo tale – meritato – da riverberarsi sulla fonte, facendo sì che negli USA escano finalmente in digitale anche le Stagioni 3-4-5 della serie e che lo home entertainment italiano ponga riparo all’ignominia della completa assenza di essa.
Ultimo auspicio, che le proporzioni del blockbusting planetario conducano – minimo – ad una trilogia, secondo le loro dichiarate intenzioni (addirittura assurgere ai fasti di «Lethal Weapon»).
Non mi è molto chiaro dove dovrebbe essere la mascolinità tossica dei personaggi di Lee Majors, ne perché dovremmo preferire il maschio metrosexual, però dato che “L’uomo da sei milioni di dollari” invece era la mia serie preferita e che la recensione mi aveva già preso con i seguenti riferimenti: “The Nice Guys, John Wick e Atomica Bionda”, dico che questo “Fall guy” lo vedrò sicuramente, magari non al cinema, ma in streaming sono già lì.
Spero non sia troppo simile a “Bullet Train” perché questo film mi aveva deluso abbastanza, troppo lungo, troppo assurdo, troppo sopra le righe, umorismo si, ma anche meno, grazie.
Non mi pare di aver mai scritto che Lee Majors rappresenti la mascolinità tossica o che metrosexual sia meglio della.vrcchia guardia. Sono solo due cose diverse.
Qualcuno (oltre a me) ricorda PROFESSIONE PERICOLO (The Stunt Man) del 1980, con Peter O’Toole e Steve Railsback?
Una pietra miliare.
Sui subreddit dedicati agli andamenti dei box-office ci si sta chiedendo perché perché quasi film, che ha ottime recensioni ed è piaciuto a quelli che l’hanno visto, sta andando male al botteghino. Problemi di marketing o il cinema, inteso come luogo fisico per vedere i film, è praticamente moribondo?
il mio parere personale è che se il cinema fosse moribondo lo si vedrebbe dalla media degli incassi degli ultimi mesi paragonata agli anni precedenti, non dagli incassi di un film solo
Ma quanto è bellissima la sigla di Professione Pericolo (la serie)? Ce l’ho pure in playlist e ogni volta che parte mi vien voglia di spatafasciarmi contro qualcosa col Pandino…Del film ho visto solo il trailer; l’impressione in effetti è che non centri nulla con la serie, ma è una tale sequela di cassate divertite che penso gli darò una chance al cinema… PS Lee Majors era un signor califfo, altrochè!
…sigla cantata da Lee Majors in persona, tra l’altro…
Urca, questa non la sapevo! Mitico…
Salve a tutti.
Una volta il grande Lee Majors cantò “The Unknown Stuntman” (playback, Ok) anche nei panni di Colt Seavers, insomma nel corso di un episodio (il cosiddetto uso diegetico di un tema musicale):
https://youtu.be/dq-gddbQssY?si=rBkS8qaY4ErwEyGp
Game, set & match già dal titolo.
P.S. – Riguardo poi all’aspetto “murder mystery” in quell’ambiente, mi piace ricordare anche «Stunts (aka Stunts, the Deadly Game) / Il pericolo è il mio mestiere», 1977, con Robert Forster e – fra gli altri – Richard Lynch (due futuri antagonisti di Chuck Norris in un colpo solo): regista di «Commando», Mark L. Lester, trama da film di Jean-Claude (Van Damme, non il cane mordace – a comando -di Tom Ryder).
P.S. – Riguardo poi all’aspetto “murder mystery” in quell’ambiente, mi piace ricordare anche «Stunts (aka Stunts, the Deadly Game) / Il pericolo è il mio mestiere», 1977, con Robert Forster e – fra gli altri – Richard Lynch (due futuri antagonisti di Chuck Norris in un colpo solo): regista di «Commando», Mark L. Lester, trama da film di Jean-Claude (Van Damme, non il cane mordace – a comando – di Tom Ryder).
Film promossissimo: azione ottima (ovviamente, dato che è David Leitch), e commedia azzeccatissima, molto divertente per tutto il tempo.
Andatelo a vedere, che sennò floppa