“Diavologia”, o di quella volta che dopo Lords of Salem abbiamo sentito il dovere di fornirvi modelli di demònio più attendibili o quantomeno più interessanti; per dilettarvi, educarvi o semplicemente legarvi in eterno ad un patto.
Prima di far recitare Katia Ricciarelli diventare uno dei registi più sopravvalutati d’Italia, con filmetti la cui noia è riassumibile perfettamente nelle due parole “Silvio Orlando”, Pupi Avati era un regista mediocre. Privo della capacità narrativa di un Fulci o della visionarietà di un Bava, Avati rientrava nel novero di quei ragazzotti che, alla meglio, potevano aspirare al ruolo di aiuto regista e poi, chissà, magari, diventare Carlo Verdone un regista di commediole insulse. Forse per colpa (diciamo colpa) dell’ambiente artistico molto fertile, in grado persino di infondere ispirazione a un ferro da stiro Dario Argento, il giovane Pupi però una lezione la imparò bene e con quella ci si costruì un’intera carriera. La lezione era: “puoi anche essere un cane come regista, ma se hai una buona ambientazione tra le mani e la sfrutti massicciamente, il risultato a casa lo porti”. A guardare infatti oggi La casa dalle finestre che ridono si intuisce proprio questo: da un lato l’assoluta incapacità di Avati di narrare una storia in maniera convincente e senza inutili didascalismi (personaggio esce dalla stanza, personaggio che apre la porta, dettaglio della maniglia sulla porta, dettaglio del dito sull’interruttore, dettaglio sulla lampadina che si spegne, primo piano sul volto del personaggio che si oscura, campo lungo sul personaggio che cammina nel buio, rumore di oggetto in cui il personaggio inciampa perché è al buio, il personaggio dice “Mannaggia sono inciampato con tutto questo buio”), dall’altro la forza evocativa propria del territorio italiano. Mutatis mutandis (ma neanche più di tanto), Avati è stato il precursore di tutto il filone fictionaro poliziesco ambientato in provincia: dall’inutile Barbareschi a Ferrara, fino allo stucchevole Coliandro dei Manetti. S’è fatta una certa scuolina eh… bravo Pupi, setteppiù.
Tornando a noi e al nostro L’Arcano Incantatore. L’Arcano Incantatore si incastra, nella filmografia avatica, esattamente a 10 anni di distanza da La Casa dalle Finestre che Ridono, ben oltre -molto ben oltre- quel filmetto chiamato Regalo di Natale ed ESATTAMENTE lo stesso anno di Festival, il metafilm ambientato durante il Festival del Cinema di Venezia con un Massimo Boldi in un inténzo ruolo drammatico. Appunto a margine: nonostante il pompinazzo alla kermesse di Gillo Pontecorvo, il film non sarà ammesso al concorso, riuscendo così a far peggio solamente dell’inguardabile La Tigre e la Neve di Benigni che, con la sua leccatina all’establishment governativo americano e alla sua politica militarista e guerrafondaia, pensava di portarsi a casa un Oscar facile. Ricordiamocelo… La Tigre e la Neve, la guerra in Afghanistan e gli americani simpatici… ricordiamocelo.
Dunque, si diceva: L’Arcano Incantatore è un film brutto sotto molti punti di vista. D’altrocanto si vede benissimo qual è lo spirito con cui è stato girato: non contento di essersi mangiato quello che poteva del FUS con Festival, con L’Arcano Incantatore Avati ha fatto scarpetta. La recitazione è ai limiti dell’amatoriale, la fotografia sembra realizzata ricicciando le lucine di Natale e le riprese sembrano fatte con una handycam comprata lì per lì. Confrontato con altre opere dello stesso regista, il film è -per qualità realizzativa- un insulto allo spettatore (il personaggio carismatico della pellicola, quello su cui tutto poggia, sarà in futuro un comprimario in Il Bagno Turco di Ozpetek, di cui non dico altro perché basta la parola). Tuttavia c’è qualcosa che salva tutto quanto. Se volete proprio saperlo, ai tempi del trailer di L’Arcano Incantatore io ero molto piccolo, troppo piccolo per vedere il film al cinema, ma non abbastanza piccolo da non fare i fortini con i cuscini del divano e non abbastanza piccolo da non rimanere fortemente traumatizzato dalla filastrocca “Rosa di Rose” che compariva, inquietante, nel trailer trasmesso nel tivvucolor dei miei genitori. Son pochi secondi di film, è vero, ma bastano a reggere -come spiegherà meglio il professor D. Von Trier dopo- tutto quanto l’ambaràdan. Intanto la trama: Italia. XVIII Secolo. Accusato dell’aver messo incinta una giuovin pulzella (e di averla fatta abortire), l’imberbe seminarista Giacomo per fuggire all’ira funesta dello Stato Pontificio, si reca sugli appennini per adempiere al ruolo di valletto/archivista di Achille Ropa Sanuti, sacerdote bolognese esiliato dalla Chiesa poiché in odore di esoterismi. Il giovane Giacomo viene accolto in sostituzione di Nerio, precedente archivista del sacerdote e adoratore del demonio. Quello vero. Quello puro. A far da suggello a tutto questo, un patto di sangue con un’antica dama esperta di arti magiche che lo obbliga a “non rivelare a nessuno quello che vedrà in casa del sacerdote”. Da lì in poi si va di thriller esoterico in piena regola: il diavolazzo viene evocato e Avati va di sciàmbola. Candele, porte scricchiolanti, quintali di sussurri e sussurrini e monachelle dagli sguardi sfuggevoli. E poi bicchieri che si frantumano contro i muri, porte chiuse, eventuali citazioni romeriane, salassi e il maligno che alligna fino ad arrivare al triplo twist carpiato (il cosiddetto Avati Double Cross Dribble: sotto le gambe, dietro la schiena, cambio di mano).
Ciò premesso la trama avanza incespicando e le performance attoriali non aiutano di certo. Gli attori infatti, depositari dell’intera gestione del pathos, spesso anziché farci percepire la presenza dell’innominabile dallo zoccolo caprino, nel loro guardare a caso per la stanza con gli occhi dritti al cielo riescono al massimo a rievocare Stevie Wonder facendo presagire la comparsa, a breve, di una cover di I Just Call To Say I love You. E allora? E allora, signora mia qui è tutta atmosfera che, come si disse sopra, è l’unica cosa in grado di salvare l’Avati da un infame destino. Ma su questo aspetto direi di lasciare la parola al professor Darth Von Trier che ci ha finalmente raggiunto. Esimio, prego…
—
Grazie Dr. Miike.
Come diceva il mio collega, L’Arcano Incantatore è lungi dall’essere un film perfetto anzi diciamo serenamente che è un film ricco di difetti. Ma è un bel film ricco di difetti, come del resto spesso accade con il regista -e come attesta anche Guillermo del Toro.
Avati è una sorta di Cassandra del cinema horror-thriller italiano: è l’unico regista “istituzionale” ad aver capito in cosa quel nostro tipo di cinema può veramente essere incisivo e peculiare nel mondo. Ma la sua intuizione cade praticamente inascoltata ed egli rimane abbandonato alla sua mostruosa imperizia nonché alla sua completa fascinazione per lo scegliere se possibile i peggiori professionisti disponibili. Credo che alcuni li recluti al bar della piazzetta al terzo giro di bianchini.
Se quindi racconta le cose in maniera non avvincente, se per lui una buona fotografia è un filmino HD del matrimonio di zia Marisa, se per lui la Morante e Dionisi sono due grandi attori, allora cosa ha capito Avati del fare cinema? L’atmosfera, l’ambientazione, la documentazione, l’importanza della territorialità degli immaginari per l’immedesimazione del fruitore. Tutte cose che può fare anche uno scrittore però. Ed ecco perchè al cinema Avati poi non funziona bene.
Prego… una diapositiva:
Sin dall’inizio nel 1968 con il suo “Dr. Balsamus l’uomo di Satana” -e per praticamente tutta la prima parte della sua carriera- Avati si è concentrato sull’aspetto folkloristico della paura in Italia, il tutto senza scimmiottare le paure d’oltralpe o d’oltreoceano, ma cercando una via italiana al misterioso e allo spaventevole a volte tingendolo di grottesco e farsesco perchè anche di quello è ricchissima la nostra cultura popolare (soprattutto quella più rurale e contadina alla quale Avati è legatissimo). È un cimento più che lodevole, “illuminato” direi: in Italia abbiamo una tanta e tale stratificazione di miti e figure da poterne scrivere all’infinito, collocandoli in una miriade di contesti passati, così come ricontestualizzandoli in quelli presenti -come ad esempio fece in Zeder.
Come le campagne in un quadro di Bosch o Brueghel, quelle padane della fantasia di Avati brulicano di streghe, storpi, diavoli, puttane, frati ubriachi, contadini furbi, girovaghi, personaggi erranti in panorami nebbiosi che, dal bucolico, si trasformano in pantani pronti a inghiottirti, o costretti a vagare in case abbandonate in una natura rada eppure minacciosa nella sua desolazione
Un’altra diapositiva:
Ecco: in Italia non ci fanno realmente paura (dove per “paura” intendo qualcosa che, al di là del sobbalzo, ci depositi un’inquietudine duratura e che sappiamo essere nostra) i fantasmi dell’estremo oriente e i killer sadici dell’estremo occidente, quelli sono brividi che per quanto inquietanti sono comunque di seconda mano. Da qualche parte nella nostra spina dorsale, il nostro DNA riconosce la paura ancestrale e proprietaria delle nostre campagne, dei nostri diavoli, l’inquietudine di entrare in chiesa da soli o il sentire di essere osservati da dietro le persiane del paesino deserto alla domenica. Così come avvertiamo inquietudine e attrazione di fronte al parafernalia esoterico che sormonta i nostri monumenti, nelle grottesche dei nostri palazzi o che trabocca inarrestabile da ogni incisione secentesca. Abbiamo ancora il richiamo dei Cagliostro e dei Palombara che ci ammalia per quanto cialtrone, sorpassato o incomprensibile lo si possa reputare. Siamo ancora suscettibili al fascino degli studi di Athanasius Kirkcher: probabilmente passeggiare in una galleria museale deserta ci fa sentire a disagio tanto quanto l’aggirarci per catacombe e ossari barocchi.
Perchè siamo europei, siamo italiani, l’inquietudine del passato ci si infila negli occhi pressochè da ogni direzione e ci nasciamo con l’insita fascinazione per il misterioso, l’inquietante, meglio se antico e meglio ancora se con connotazioni mistico-religiose.
Diapositiva prego:
Il diavolo di cui ci parla questo film non è un Satanasso che si manifesta tra fumi e streghe nude, caprino e gagliardo ingroppatore di vergini o che striscia come un ributtante mostro tentacolare nella notte, qui il diavolo è un entità astratta, malvagia sì ma soprattutto ingannevole e bugiarda, che trova la sua ragione d’essere nel fregarci con un patto quando siamo messi alle strette dalla vita. Tutto questo lo fa ricorrendo, oltre che all’approfitto della nostra difficoltà, anche a trucchi da ciarlatano: vocette, cosmesi, luci e ombre come un mago del circo itinerante. Il diavolo che ci fa raggirare dall’arcano incantatore del titolo, nonostante i modi eleganti, è più quello di cui ci parlano i testi di Giuseppe Cocchiara o quello delle fiabe popolari italiane raccolte da Calvino che quello della Bibbia. Un demonio un po’ rustico ma non per questo meno pericoloso e letale.
Diapositiva:
Nella succitata dal mio collega Miike scena del paravento delle civette, quando da dietro questo il diavolo, travestito da vecchia megera intona beffardo una cantilena riadattata da una cantica sacra in onore della Madonna scritta da Alfonso X di Castiglia, c’è tutto il potenziale di quello che potrebbero fare -se ben condotte- certe atmosfere italiane, colte ma anche godibili da tutti perchè endemicamente popolari per noi, recepite “a sangue” e quindi più inquietanti proprio fisiologicamente.
-Fate silenzio laggiù!- Diapositiva prego:
Tutto questo corpus di cultura italiana tra il religioso e il triviale, tra l’ufficiale e il popolare, è praticamente un territorio inesplorato nel nostro cinema e l’unico autore ad averci legato tantissimo del suo lavoro è proprio Avati, che preferisco reputare un “autore” appunto per questa sua personale visione piuttosto che un “regista”, visto che in questo aspetto vacilla spesso.
In un caso che però mi sta particolarmente a cuore in quanto romano, Avati limitandosi ad essere solo autore scrisse nei primi anni ’90 per la RAI un soggetto dei suoi per una serie dal titolo Voci Notturne, uno sceneggiato che affondava dal presente le mani nel passato arcaico e violentemente misterico della Roma pre-cristiana. Venne affidato alla regia di un altro e anche qua la visione di Avati, nonostante non dirigesse di persona, venne dispersa in una messa in atto da cani sotto ogni punto di vista, uno spreco di buone idee scandaloso. Graverà mica una maledizione sul nostro Pupi? Mi piace pensare di sì, sennò non ce la faccio a farmi una ragione di troppe cose.
Data l’età del regista non posso sperare in un suo cambiamento ma spero sempre che qualcuno raccolga la sua visione, prenda questo bagaglio culturale e inizi a farci paura con le nostre storie ed atmosfere come si deve, senza avere il timore di battere strade più nostre così da regalarci quel bel disagio all’italiana.
Ultima diapositiva, grazie:
In chiosa: va fatta menzione al bel lavoro di scenografia e location fatto da Giuseppe Pirrotta, parte integrante del fascino del film e veramente minuziosa: perché il bello dei film di Avati (quando c’è) sta nei dettagli, come il Diavolo.
Per oggi è tutto con Diavologia, alla prossima settimana.
DVD-Quote suggerite:
“La casa con le finestre che sbattono senza motivo apparente”
Bongiorno Miike, i400calci.com“L’entità più malevole della campagna padana, prima della Lega”
Darth Von Trier, i400calci.com
Campagna Padana recentemente esorcizzata da Padre Amoth Manildo.
E sono vent’anni che sognavo di scrivere qualcosa del genere!
Con un titolo così come minimo doveva andare a chiedere i diritti a casa D&D. Ma va beh. Esorcizziamo tutto.
Sul discorso delle inquietudini di stampo italico, va segnalato anche lo scenggiato “Il Segno del Comando”- non propriamente horror, ma a tratti qualche strizzone te lo fa venire.
Concordo, Avati va tumulato senza possibilità di appello, è così coerentemente mediocre da risultare rassicurante.
Sulle atmosfere italiane, non so…il richio è di degenerare in sottoprodotti oleografici da film commission, e in Puglia ne sappiamo qualcosa.
Alla fine, è sempre la traiettoria dello sguardo a creare l’orrore, ed in ciò cito il bell’esempio di Zarantonello, italiano in trasferta, con il suo The Butterfly Room.
Il film, mai visto. Una volta ho visto sul satellite, scampoli di una roba con Silvio Orlando che aveva una figlia brutta e aveva delle atmosfere, tipo un funerale, che erano belle. Grazie alla rece, ho capito che poteva essere roba sua.
La roba del diavulo e della campagna, molto vera. Comunità di contadinotti con credenze, riti e cerimonie per volgere a proprio vantaggio il corso degli avvenimenti, il meteo, una pulsione, tutto mescolato al catechismo. E che quando andava ammale allora erano stati malefici, cazzi, malocchi o magheggi del dimonio dispettoso. Però di sicuro è una roba diversa dal bene-male della chiesa.
Ricordo che quando vidi il trailer mi gaso’ non poco con quella vocina e la filastrocca, nonostante avessi smesso di fare fortini coi cuscini…poi pero’ recuperai prima il vhs della casa dalle finestre che col mega twist alla scoobie doo e le atmosfere padane mi piacque di brutto e quando finalmente anni dopo mi affittai l’arcano fu una mega delusione perche’ veramente non succedeva niente, cioe’ ancora belle le atmosfere, ma peggio di un coitus interruptus
A me sia “La Casa dalle Finestre che Ridono” sia “Zeder” sono piaciuti. Avati non sarà un gran regista nè un maestro del genere, ma quando gioca d’atmosfera (come rilevato giustamente da Darth) si fa ricordare.
Conosco sto film perchè come il buon Miike pure io vidi il trailer da fanciullo e per qualche strano motivo mi è rimasto. Tentava di essere angoscioso ma già ai tempi sapevo sarebbe stata una puttanata drammo-clericale all’italiana e a ripensarci minchia se stavo già avanti.
Comunque ormai quando vedo film italiani con chiese/rituali turpi/orgie strane mi viene la nausea, conscio che le situazioni orgiastiche borderline sono ben lontane dalla realtà e che tutto quel che resta è soltanto una merda di bigottismo cattolico che si limita a farsi sempre i cazzi altrui.
E poi boh, co sto terrore delle campagne…mah…le poche volte che ho visto una campagna l’unico impulso che mi è venuto è stato levarmi dal cazzo dato che campi arati o stradine nel boschetto mi mettono addosso una noia che brucerei tutto.
@Steven: quel film con
la figlia bruttaAlba Rohrwacher è Il Papà di Giovanna. Lo vidi al cinema e per tutto il tempo rimpiansi di non avere qualcosa di più interessante da fare. Tipo, che ne so, leggere il retro del flacone dello shampoo.Bella recensione, lunga ma letta in un attimo perché davvero interessante. Ho amato questo film da adolescente. Bravi!
Schiaffi: «conscio che le situazioni orgiastiche borderline sono ben lontane dalla realtà». Io non ne sarei così sicuro
@ Rocco Alano
Bravissimo.
Difatti “Voci Notturne” ne era un ideale erede, fallendo ahimè.
Altri sceneggiati RAI del mistero esoterico all’italiana assolutamente degni di nota furono Ritratto di donna velata e Il fauno di marmo (tratto dal classico di N. Hawthorne).
Sullo stesso taglio ma non italiano era I compagni di Baal, francese come anche il famoso Belfagor.
Consiglio tutti.
@dikotomiko
accantonare l’idea della necessarietà di un paese dell’avere un immaginario proprio onde raccontare meglio un inquietudine propria, per questioni di “magheggi della film commission”, è più avvilente dei magheggi stessi.
@Steven Senegal
Assolutamente.
C’è una letteratura sconfinata sull’argomento.
Nell’articolo ho citato Cocchiara che è molto completo e più che altro specifico sul nostro paese, ma ovunque in Europa le tradizioni apotropaiche contadine riguardo agli spiriti malvagi si sono poi mischiate con la cultura cristiana successiva creando credenze e soprattutto ritualità pazzesche.
@ Schiaffi
Traquillo: qua gli amanti di Gesù se la prendono sistematicamente nel cacapranzi.
Non ci sono però orge borderline, de che stai a parlà?
@ Miike, pensavo che vedere Greggio morto ammazzato valesse il prezzo del biglietto.
@Rocco: Greggio non vale mai il prezzo del biglietto. MAI.
@Rocco Alano: sapevo che c’era qualche altro fancalcista trevigiano da qualche parte!
@Miike
se vabbè qualche volta avranno fatto pure qualche ammucchiata tra fessacchiotti ma da qui a far passare l’italietta per il paese delle turpe ce ne vuole. Ma magari guarda, a me sa tanto di paese di poveri coglioni che non fanno mai nulla fuori dall’ordinario e che si attaccano a tutte le cazzate pur di credere che in realtà nell’oscurità al di fuori del salottino di casa chissà che succeda.
Fidati che a parte qualche povera crista che finisce ammazzata male per i soliti futili motivi, non ci sta nessun rituale o magico club dell’orgia là fuori. Al massimo trovi i rimasugli di teenager goth che pensano di fare i mistici con il necronomicon noleggiato in biblioteca e un paio di cale pacco.
A distanza di anni e rileggendo la tua critica mi accorgo che sostanzialmente non capisci un cazzo di cinema….spero che tu nel frattempo abbia cambiato pagina
@ Tyus23, Satana all’ospizio si troverà benissimo. Lì sai quanti altri nostalgici trova? Magari riesce a farsi eleggere rappresentante dei degenti e fare qualche multa alle carrozzine che girano troppo veloci nei parchi.
@Schiaffi: delle turpe no, ma della gente morta male male male male male male male male male direi di sì. (Lo so, guarda, mi son documentato)
@Rocco: di sicuro! TOLLERANZA DOPPIO 0 verso i nonni degli immigrati
@Miike Grazie. Mi hai tolto un peso. Io per fortuna avevo il calciomercato che iniziava e cambiai canale. Le etichette le leggo in momenti più privati della giornata.
@Darth: beh, pensa un po’ ai benandanti, poracci. Un attacco a tutto un mondo rurale che poi mi nasce la caccia alle streghe.
Oh, ma il cacapranzi cos’è? Ma è una soluzione di design tipo il thermos-bong?
Esteta che non sei un altro.
@ schiaffi.
Ma perchè sei partito con la tangente degli omicidi turpi?
Qua si parla di come l’approccio all’idea di paura ed inquietudine e anche a “Il diavolo” in Italia fosse molto diversa da altri posti, molto particolare.
Ciò al di là dei retroscena violenti che possano esserci in questo e molto al di là (concettualmente e cronologicamente) della cronaca attuale.
Ma anche al di là della Chiesa in senso stretto.
Comunque nel film ci sono i fantasmi di due giovani monachelle uccise a picconate, se può farti piacere.
@ Steven Senegal
Esatto!
Ecco i Benandanti sarebbero un bel soggetto.
Il cacapranzi è una roba che dice un mio amico toscano per dire “culo” con garbo. Quindi “cahapranzi”.
Esteta lui.
@darth
ok la necessità di un immaginario autarchico, dubbi sulla necessità di una connotazione ambientale autarchica, i film che mi hanno fatto più paura sono quelli nelle case o nei boschi…
Penso allo sguardo che trasforma un ambiente in orrore: Rosi apre Cadaveri Eccellenti con la visita alla cripta, salme mummificate, bocche aperte contorte orride che non urlano, l’Italia è il Paese dei morti. L’orrore italico, appunto.
@dikotomiko
Una cosa non esclude l’altra, innanzitutto.
Era un discorso generico, non parlavo di omicidi turpi, ma di comportamenti turpi, rituali strani, angoscia dei boschetti e vigneti…tutte quelle cose toccate dalla filmografia italiana. Tutta sto timore dei campi arati e delle baracche dei contadini io non lo vedo. Poi magari sono io che non sto afferrando il concetto, probabile eh dato che se soltanto penso alla noia della campagna il mio tristometro va fuori scala.
@darth
vero, resto perplesso ma possibilista.
E’ che se penso a immaginario horror + habitat autarchico mi viene in mente l’inziio di Nuovo Mondo di crialese, con il rito stregonesco del serpente e dell’uovo in quella specie di dammuso siciliano, quindi temo la deriva a realismo magico de’noantri, ma probabilmente il limite è nel mio occhio.
riposto chè ho sbagliato il mio nick, scusate:
@darth
vero, resto perplesso ma possibilista.
E’ che se penso a immaginario horror + habitat autarchico mi viene in mente l’inziio di Nuovo Mondo di crialese, con il rito stregonesco del serpente e dell’uovo in quella specie di dammuso siciliano, quindi temo la deriva a realismo magico de’noantri, ma probabilmente il limite è nel mio occhio.
@dikotomiko
anche qui: non vedo perchè un approccio “realista alla magia italiana”, in chiave horror non possa funzionare solo perchè hai in mente l’esempio non buono di un film che non è poi neanche un horror.
Così come per esempio positivo porti Cadaveri eccellenti, che è un bellissimo film ma non è un horror manco lui.
Comunque sì, credo che il limite sia nel tuo occhio a questo punto.
Passando oltre.
Il problema di questa faccenda secondo me è che i registi passati che ci hanno messo mano lo hanno fatto in maniera maldestra o non soddisfacente (penso anche a La Chiesa di Soavi o a Demonia di Fulci) e i registi attuali un po’ per esterofilia, un po’ forse scoraggiati da esempi non incoraggianti e un po’ anche perchè non ci sono i soldi per i giovani registi che vogliono fare una cosa più particolare non ci hanno messo mano.
Un altra questione (che ha funestato anche il film di Avati di cui sopra) è che poi a farlo autarchicamente si usano gli attori italiani e lì casca un asino grande come Godzilla.
Boh. Io forse lo dovrei pure rivedere. lo vidi quando era uscito in VHS noleggiato con un mio amichetto delle medie, in quell’età che ti fai prestare la tesserina della videoteca da tua sorella perchè sei veramente troppo piccolo per noleggiare gli horror ma te li danno lo stesso perchè il commesso se ne fotte (o ti vuole bene). Comunque sia ricordo che mi annoiò da morire e mi feci due palle che non finivano più. Roba che “si ok le atmosfere ma NON SUCCEDE UN CAZZO!”. Due palle. Magari ero piccolo e non capivo certe cose che oggi apprezzerei, non lo sò, molte volte mi son detto “dovrei rivederlo” ma la voglia non c’è mai. Poi ricordo quella faccia da babbo che si guarda sempre spaurito a caso per tutto il tempo.
@darth
ma allora la coperta è troppo corta, come fai a rendere un horror di ambientazione italica senza la lombrosiana maestranza italica ? Occorre sperare che almeno si possa lavorare sulla dizione, sennò rischi di avere risultati tipo “Pariolini a Comacchio”, quello sì sarebbe un extrahorror !
Cercherò di allargare il mio campo visivo, saluti e soliti complimentoni a te e tutta la truppa.
@ vespertime
per non parlare del fastidio che tutto il film ha la di lui voce narrante, che ha una dizione orrenda e spesso non si capisce cosa dice.
Però ecco per farmelo voler bene ‘sto film, con queste premesse, pensa che bel lavoro sull’atmosfera ci sta.
Adesso che sei grande riguardatelo, hai visto di sicuro di peggio e di più noioso.
@dikotomiko
In quel caso spero nel doppiaggio più che nella dizione!
Grazie e saluti a te.
Noi italiani ce l’avremo sempre scomoda piu’ degli altri, perché quando hai familiarita’ con il contesto culturale sei istintivamente critico il doppio. E’ per questo che faremo sempre fatica.
Entro con un calcio shaolin per dire che ve la state menando tanto sul diavolo, superstizioni, territorio, senza aver ancora nominato NON SI SEVIZIA UN PAPERINO e la figura della maciara (e del prete) e il il valore “etnografico” del film.
a me da piccolo impressionò il trailer di Magnificat di pupo avato. è tanto una sozzeria?
@ Moana Price
Magnificat è un film storico che prende in esame esattamente quell’aspetto di commistione tra l’avvento del primo cristianesimo e le tradizioni preesistenti nelle campagne che si diceva prima.
È molto ben ricostruito e dettagliato (forse il migliore da questo punto di vista di Avati), può essere pesantuccio ma se interessano le tematiche e il quadro storico (l’anno 1000) te lo consiglio.
Non è un horror ma è abbastanza crudo.
Cazzo mia nonna mi raccontava delle favole (presumo di sua invenzione) ambientate in Garfagnana piene zeppe di diavoli che cercavano di fotterti in ogni modo o mangiarti. Roba che mi faceva cacare sotto e se son finito col poster di Texas Chainsaw Massacre in soggiorno ci sarà un motivo.
Detto ciò, questo l’ho visto millemila anni fa e non mi ricordo un frame, cosa che generalmente non depone a favore del film, ma La casa con le finestre che ridono invece me lo ricordo nonostante la pecorecciaggine di alcuni passaggi. Tra l’altro c’era pure un sampler che apriva il disco degli Encor Fou, beati primi anni duemila dell’emoviolence.
va bene tutto, diavoli e non diavoli ma parole come “emoviolence” per favore no perchè c’è gente che giustamente poi si risente.
A me vivere il mondo rurale mette effettivamente un po’ di angoscia. Vederlo molto meno. Poi calza sulla telecamera appena c’è una tetta, stefano dionisi, vocine di vecchie, stefano dionisi, stefano dionisi… Asciugano subito. Anche nelle sue commedie, oltre alla bravura nel ricreare le atmosfere rurali e di paese non vedo veramente nulla.
PS
ma il pelato che apre il cancello nella “scena del paravento” è quello dei cavalli marci che faceva il Laziale a Ciro il figlio di target?!?
@ Devid Sfinter
Esatto: è “Er Vertebra”.
Discorso molto interessante, più del film preso in esame temo (che però non ho mai visto per intero).
Secondo me dai gotici italiani alla Bava, Freda & Co, anche se spesso fingevano ambientazioni transilvaniche o anglosassoni, usciva comunque parecchia “italianità”. Ad esempio il paesino di “Operazione paura” trasuda lazialità da ogni muro e un film come “Il mulino delle donne di pietra” fin dal titolo ha più un sapore da favola della nonna Adelina che non di Poe in salsa Corman.
Anche il thriller di ascendenza argentiana era italianissimo, anche se di un’italianità moderna, salottiera e urbana, con in effetti rare “scampagnate”.
Comunque le già citate finestre ridenti di Avati e i Paperini seviziati di Fulci sono capolavori e “Zeder” ci va poco lontano.
Altri esempi che mi vengono in mente sono “Un tranquillo posto in campagna” di Petri (che comunque non è un vero thriller) o il simile pre-Shining veneto “Il tuo Vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave” di Martino, ma in cui l’ambientazione provinciale resta piuttosto sullo sfondo e ci si limita a sfruttare l’angoscia dei casolari vuoti.
Dei dintorni di Avati citerei anche “Luci lontane” di Aurelio Chiesa (più italiano di così!) interessante tentativo di coniugare atmosfere alla Bradbury e ambienti provinciali italiani, sabotato dalla solita messa in scena squallidina avatiana.
Insomma concordo, lo sprofondo provinciale italiano resta un grande scenario inesplorato dal cinema de paura. Considerato a che passi è il nostro cinema temo (e spero) lo resterà per sempre.
@ tommaso
Ottimo intervento grazie, concordo su tutto a parte che io un po’ ci spero ancora.
@Darth AHAHAHAJAJAJ eo, cosa pretendi, in quegli anni a Bologna quello impazzava! Comunque la tua dvd quote è strepitosa!
nel prossimo film di avati ci sarà sharone stone
@ malintenzionato
Non è sicuro… Ma almeno sarebbe un passo avanti.
La brutta notizia è che 1) non è un horror 2) ci sta tipo Scamarcio.
Totalmente in disaccordo con la recensione; Avati non sarà da premio Oscar ma rimane cmq un buon regista italiano. L’Arcano Incantatore ha dei dialoghi che danno la pista al 90% della produzione commerciale americana e italiana. Per non parlare delle atmosfere e del finale, che probabilmente l’80% della gente che ha visto il film neanche ha capito. Il film non è un horror, non vuole mettere paura durante le evocazioni, ma piuttosto pone lo spettatore nel dubbio, mischia la realtà all’esoterico, trasmettendo un’atmosfera tutta sua dove il confine fra il bene e il male è labile. Non è proprio l’intento del regista quello di impaurire… chi ha scritto la recensione evidentemente non ha capito il film, a mio avviso.
Innanzitutto, una premessa: questo vecchio pezzo fa parte di un ciclo di recensioni (Diavologia appunto) che come dice testualmente l’incipit in corsivo è volto a fornire spunti cinematografici interessanti sul tema del diavolo, quindi di base sono recensioni fatte con un qualche tipo stima verso i film in oggetto, quindi positive per almeno alcuni aspetti dei film in esame.
Detto ciò: la recensione è divisa in due parti, quindi risponderò esclusivamente per quella che ho scritto io ovvero la seconda parte e la prima cosa che mi viene da dire è “ma la hai letta tutta la recensione?”.
Perché nella mia parte disamino con grande stima proprio le cose che ci imputi di non avere colto eh, ed è un’ analisi positiva del film e di alcuni suoi aspetti.
Quindi tranquillo: la vediamo circa allo stesso modo… Giusto personalmente imputo delle grossolanità ad Avati come regista, che fanno ormai anche parte della sua cifra stilistica probabilmente.
A parte questo, è uno dei miei film mistery preferiti e, sempre parlando per me, non gli ascrivo il ruolo dell’horror; nella recensione infatti parlo sempre di inquietudine e, come Avati stesso, ascrivo il tono del film al gotico più che all’horror.
Spero di averti chiarito le cose, ciao.
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Come fate a dire che la fotografia e la recitazione sono amatoriali???? E’ tutto un po’ di servizio, vero, ingessato e si, Dionisi è cane. Ma i caratteristi sono incredibili, anche chi appare solo una volta, e Cecchi è magistrale, uno dei personaggi più profondi che abbia visto in un horror. Trovo ci sia una raffinatezza nel creare paura partendo proprio dalla luce, gli ambienti e la pronfondità dei personaggi che sinceramente trovo superiore anche a capolavori del genere non italiani. Avati è un po’ sciattino, vero, però l’atmosfera è potentissima e anche grazie a una bella seppur classica fotografia e alcune caratterizzazioni davvero centrate.
Complimenti comunque vi leggo sempre siete dei grandi!