Uno dei miei libri preferiti in assoluto è Amatissima di Toni Morrison. Che, essendo un romanzo premiato col Pulitzer di una scrittrice premiata col Nobel, si tende a non classificare mai troppo apertamente come horror. Ma Amatissima è un horror fatto e finito: ci sono una casa infestata da un poltergeist e una presenza demoniaca, a tratti spettrale e a tratti tangibilissima, che consuma la vita della protagonista, diventando sempre più grande mentre quest’ultima si fa sempre più piccola e sottile. È un libro pieno di immagini orrorifiche: di ferite, di piaghe, di cicatrici, di omicidi sanguinosi, di terrore inesprimibile, di eventi troppo raccapriccianti per essere nominati o anche interamente compresi, di violenza cieca. È un romanzo sulla schiavitù, e quindi, a pensarci un attimo, non potrebbe essere altro.
Ho pensato molto ad Amatissima vedendo His House (ancora di più quando si svelano tutte le carte nel terzo atto, ma di questo disquisiamo magari nei commenti, sempre indicando con chiarezza gli spoiler): non so se il regista e sceneggiatore Remi Weekes l’abbia letto, o se l’abbiano fatto gli autori del soggetto Felicity Evans e Toby Venables. Da un lato mi verrebbe da dire “ovvio”, perché soprattutto nel mondo anglofono è uno di quei classici imprescindibili che si studiano a scuola. Dall’altro che ne so io di cos’hanno letto o non letto queste persone, mica noi tutti abbiamo davvero letto da cima a fondo I Malavoglia o La coscienza di Zeno, e l’ultima cosa che voglio fare è letteratura-shaming.
His House è un horror con una casa infestata e con morti putrefatti che escono dagli innominabili traumi dei protagonisti – oltre che dalle fottute pareti – e prendono una forma a volte impalpabile a volte molto fisica allo scopo di trascinare i succitati protagonisti alla follia e alla morte. Come quelli di Amatissima, sono contemporaneamente molto molto reali e molto molto metaforici. I protagonisti di His House sono Rial e Bol (lui è il co-protagonista di Gangs of London), una coppia di rifugiati, fuggiti dal Sud Sudan e approdati in Inghilterra dopo aver perso la figlia Nyagak, insieme a molti altri profughi come loro, in uno di quei naufragi nel Mediterraneo di cui siamo abituati a (non) leggere ogni settimana in fondo alla prima pagina del giornale (sì, okay, scusate, nessuno legge più i giornali, boomer alert! Prendetela come una figura retorica). In attesa di un responso sulla propria domanda d’asilo, i servizi sociali nella persona del Doctor Who Matt Smith assegnano loro una casa popolare, in una periferia di Londra che potrebbe essere ovunque, non mancando di sottolineare con noncuranza che “questa casa è più grande della mia”, sia mai a Bol e Rial venga l’idea di rispondere con qualcosa di diverso dalla pura e incontrastata gratitudine.
La casa sarà pure grande, ma è anche fatiscente e, soprattutto, infestata. Da ratti, muffa e insetti, ma soprattutto dal vertiginoso senso di colpa che divora Rial e Bol, i quali tra l’altro mentre aspettano non possono fare quasi niente, possono solo “fare i bravi”, provare a dimostrare che sono “il tipo buono” di immigrati. Bol brama un’integrazione omologante, Rial sembra incapace di affrontare il mondo, entrambi fanno passare i giorni con questo enorme senso di colpa sulla testa. Un senso di colpa che – scopriremo – è molto più intricato e impossibile da sciogliere di quanto possa immaginare il punto di vista di chi non è mai dovuto fuggire da casa propria, tra le pallottole e su un barchino instabile. In tanti, parlando di questo film, hanno evocato Jordan Peele, e posso capire bene perché: His House è a tutti gli effetti un social horror figlio di Get Out e Us, i quali a loro volta non nascevano dal vuoto, ma dalla tradizione di un genere che si è sempre trovato, premeditatamente o meno, a esplicitare in terrori cinematografici i terrori sociali che gli stavano attorno. Il passo in più di Peele & epigoni sta forse proprio nella premeditazione, nel rivendicare quest’equivalenza in modo diretto, perfino sfacciato, nel frattempo appropriandosi come protagonisti, davanti e dietro la macchina da presa, di un genere che – come tutto il resto – fin qui li ha quasi sempre sistematicamente esclusi e/o vittimizzati.
Qua, scusate, ma devo fare un inciso sui cazzi miei. Il film è stato presentato al – perdonate la volgarità – Sundance Festival a inizio anno, è co-prodotto dalla BBC e suppongo che sarebbe uscito in sala, almeno in Regno Unito, se non ci fosse stata di mezzo la pandemia. Arriva su Netflix, come tanti titoli che in questi mesi si sono rassegnati a saltare direttamente sulle piattaforme streaming – alcuni magari ne sono stati pure contenti, ché Netflix per esempio garantisce quasi sempre un’immediata distribuzione internazionale che soprattutto per i film indipendenti a basso budget non è cosa scontata. Però come si vede un horror su Netflix? Voi spegnete le luci di casa e vi mettete lì buoni e concentrati davanti allo schermo più grande che avete? Oppure, esattamente come fate con La regina degli scacchi (l’avete visto anche voi, confessatelo, l’hanno visto 62 milioni di account), ci buttate un occhio sul laptop mentre controllate WhatsApp, e magari lo interrompete un attimo e lo riprendete domani sera, che adesso è già tardi e domattina avete un’importante riunione via Zoom per la quale dovete almeno lavarvi la faccia e mettervi la camicia sopra i pantaloni del pigiama? L’inciso sui cazzi miei è che io faccio davvero fatica a vedere gli horror su Netflix. Facile che sia una cosa tutta mia, eh, ma volente o nolente finisco per distrarmi, trovo molto più impegnativo entrare completamente nella storia, in quel modo epidermico e di pancia che è necessario per credere davvero all’incubo in cui un horror vuole precipitarti. Mi manca molto più del solito il buio della sala, la trappola volontaria della poltroncina del cinema.
Vabbè, tutto questo per dire che His House non mi ha fatto così paura come pensavo e come vorrebbe, anche se riconosco che ce ne sarebbero stati tutti i presupposti. Il film usa l’armamentario classico dei film sulle case infestate – i rumori di misteriosi passi veloci, i sussurri inquietanti, i lamenti lontani, i colpi inspiegabili, le allucinazioni, le figure mostruose che compaiono per un istante ai margini dell’inquadratura o negli angoli bui, etc. etc. – ma lo fa quasi sempre con competenza e controllo, cercando di costruire davvero la tensione sul lungo termine e non solo di farti fare il saltino facile e istantaneo sulla sedia, e a tratti perfino trovando qualche soluzione originale (per esempio nell’alternanza luce/buio). Insomma, sulla carta funzionava tutto, nella pratica per me (per me, lo sottolineo con duecento evidenziatori) non tanto.
La paura è una questione soggettiva, ma cercando una spiegazione oggettiva a questa mia esperienza un po’ a metà, trovo due ipotesi. La prima è quella che ho detto poco sopra, che la visione casalinga finisca per penalizzare almeno un po’ questo tipo di cinema. O quantomeno costringa gli autori di questo tipo di cinema a fare davvero i salti mortali per agguantare la tua attenzione e non mollarla neanche un secondo, il che in un film come questo, che prevede obbligatoriamente una certa lentezza e rarefazione, non c’è e non avrebbe neppure molto senso ci fosse.
L’altra ipotesi è più strutturale. Il film appartiene contemporaneamente a due macrogeneri: il dramma sociale realistico e l’horror. Il regista su quest’ambiguità ci gioca volutamente, anche perché è proprio connaturata a quello che vuole dire: questo contesto sociale (che non è solo quello di migranti fuggiti dall’inferno per ritrovarsi in un purgatorio burocratico, ma anche quello di periferie metropolitane deprimenti, angoscianti e claustrofobiche come prigioni) è un film dell’orrore, e lo è sia realisticamente sia metaforicamente. Però forse i due registri – quello dell’impegno civile e quello dell’horror – invece di collaborare fanno attrito, e ogni tanto si depotenziano a vicenda. Se penso a Get Out o Us, ma anche alla serie Lovecraft Country – che pure è prodotta da Jordan Peele, e dove tra l’altro Wunmi Mosaku, che qui interpreta Rial, è una dei protagonisti – mi sembra che dell’horror abbraccino, con più gioia e gusto, anche l’irrinunciabile componente di intrattenimento puro, di divertimento. Certo, come si poteva fare più intrattenimento con una tragedia umana e collettiva come quella raccontata in His House? Non lo so, amici, infatti come tutte le persone che non sanno fare le cose anche io non faccio le cose ma scrivo recensioni.
Ciò detto, a scanso di ogni equivoco, vorrei concludere con una dichiarazione inequivocabile, a proposito di His House: avercene. Avercene di opere prime così, e di film così in generale, e in particolare di film così su Netflix. Paura o non paura, inevitabili imperfezioni comprese.
Dvd quote suggerita: «Avercene», Xena Rowlands, www.i400calci.com
Recensione nella quale mi ritrovo completamente, il lavoro sull’atmosfera è efficace e il film si lascia guardare pur senza particolari entusiasmi. Hai citato coerentemente Beloved: mi permetto di consigliare la versione filmica del film di Johnatan Demme: secondo me splendida. In chiusura ripropongo pateticamente una mia personale petizione: recensite nell’ambito delle eccezioni meritevoli Americani di James Foley! Secondo me è “nato” apposta per essere ospitato sul vostro sito!
Capisco il tuo bisogno di sala Xena, io oltre che con WhatsApp mi distraggo anche con Wikipedia e soprattutto i Calci (leggo la rece in parallelo al film che sto vedendo). S’ha da uscirne XD
Fatto l’altra sera con “Ad astra”.
Personalmente io devo molto alla componente audio, nel coinvolgimento. Per cui l’uso delle cuffie mi aiuta molto a restare in Focus
In effetti le cuffie le ho provate una volta ed erano miracolose su questo aspetto.
Buonissimo film, la parte col messaggio non è pesante e finalmente i jumpscare fanno davvero saltare dalla poltrona. A me ha fatto paura, ma effettivamente avevo messo i pupi a nanna e la casa era silenziosa, un quasi-cinema da solo, che fa sempre più paura del cinema colla ggente. I “saltarelli” bisogna saperli fare, molti scrivono “i soliti jumpscare” ma quelli di HH, di un Hill house (il primo) o d’ un James Wan (nei suoi film ispirati… non tutti) a me piacciono ancora.
Sono assolutamente d’accordo, i jumpscare saranno pure un modo rozzo di mettere paura, ma se ben dosati e ben messi in scena funzionano. Chiaro che devi saperli usare. Anche L’Esorcista ha i jumpscare.
Mi viene sempre in mente una scena di It Follows, che non è un horror che punta sugli spaventerelli, però ecco c’è la scena in cui aprono la porta e dal nulla entra quel tizio assurdamente alto… porco dinci c’è mancato poco che urlassi la prima volta che l’ho visto.
Sono d’accordissimo con la recensione. A me la parte horror è piaciuta, anche se un po’ banalotta, ma sono d’accordo che la parte social non è bene integrata, anche se fatta bene. Soprattutto mi ha deluso moltissimo lo svolgimento e la risoluzione della trama, cioè
SPOILERS
alla fine si scopre che la bimba non era loro, ma loro l’hanno rubata per potersi salvare. E ok il senso di colpa. Ma il fatto che per tutto il film dicano di volerla riavere, come se fosse loro? Non mi sembra ben giustificato questo legame. Forse perché lei voleva un figlio che non ha avuto? Forse perché lei è legata visceralmente alla sua cultura d’origine ed è questo il suo vero “ghost”? (A tal proposito, Flanagan ha fatto il bis con Bly Manor, in cui di nuovo i fantasmi rappresentano i rimorsi e i traumi irrisolti che ci perseguitano). Ma allora perché gli stregoni? E la risoluzione finale cosa rappresenta esattamente? Mettono a tacere questo “stregone” così in quattro e quattro otto? Mah.
FINE SPOILERS
Anch’io, causa influenza, ho visto il film sul mio portatile in due sessioni diverse, e anch’io guardo sempre i film leggendo al tempo stesso i400 calci e imdb. Ma secondo me i difetti del film rimarrebbero anche se goduto con più immersività.
Sì i due registri fanno un po’ a cazzotti, ma il dramma sociale mette un bel carico da 11 sul fronte horror.
I passaggi tra memorie, allucinazioni e presunta realtà senza soluzione di continuità mi sono sembrati notevoli.
In ogni caso sì, avercene.
Per andare al cinema ci siamo vestiti (“lavati” è più soggettivo), siamo usciti di casa al freddo/caldo/tiepido, abbiamo acquistato il biglietto e ci siamo calati insieme ad estranei in una situazione anch’essa estranea che maggiormente ci impone il dovere di generale attenzione rispetto alla comoda e familiare ambientazione casalinga.
Minchia, pensa un po’ lo smart-working allora.
Queen’s Gambit spacca. Sull’onda dell’entusiasmo sto leggendo pure il libro, che prendeva povere nel Kindle da almeno 4 anni.
Però ammetto che ho sincronizzato la visione di ogni episodio con alcuni amici miei e commentavamo cagate su Whattsapp (stile 400calciTV).
È banale dirlo ma è vero che la sala è un’altra cosa. Io al cinema per esempio ho una soglia di resistenza alla lentezza (o noia) altissima. Somewhere di Coppola e certi film muti in sala me li sono goduti ma sono sicuro che fossi stato a casa mi sarei alzato 30 volte.
Film ancora da vedere così come Lovecraft Country (ma vale davvero la pena? Ho letto recensioni non proprio entusiaste…The Queen’s Gambit ovviamente sì, c’è Anya…) ma quando leggo di questi film e questi attori penso sempre “ma perchè il cinema italiano non fa più un cavolo di niente nell’horror? E possibile che tutti gli attori africani bravi-ma-bravi stanno all’estero e qua manco uno?!”.
Scusate la polemica ma siccome saranno vent’anni che in Europa si sfornano horror, thriller, mystery e pure sci-fi e fantasy (francesi, spagnoli, per non parlare dell’est europa), qua stiamo combinati ancora (commedie a parte) con le gomorre, le suburre, i romanzi criminali che te credo che ormai vanno con il pilota automatico ma anche basta! Tentativi di cui sopra, non mi portate i soliti esempi per favore e Donato Carrisi non ha mai scritto nè diretto film.
Ah, poveri noi!
Infine, RIP Daria Nicolodi
The Nest è stato un buon tentativo… anche se definirlo horror insomma…
Avercene di The Nest!
È un film che ha saputo creare una storia con una coerenza interna ed una messa in scena della narrazione molto bene fatta e professionale (puramente horror solo negli ultim minuti, altrimenti se lo vogliamo inquadrare in un genere, boh, neo-gotico?). È l’esempio giusto di quello che intendevo poi non sarà un capolavoro ma è proprio questo il problema, saper creare dei buoni prodotti (magari più di 1-2 all’anno) dai quali l’industria cinematografica italiana può ripartire (tra l’altro ‘ste maestranze, ‘ste eccellenze che tanto ci vantiamo di avere, facciamole lavorare o ce ne ricordiamo solo quando fanno qualcosa all’estero oppure quando capita una produzione internazionale in Italia?).
Di Lovecraft Country ho visto solo i primi tre episodi: produzione sontuosa ma storia imbarazzante, pare “Harry Potter e il razzista magico”. Non so se proseguire.
Ah non ti é piaciuto signor Diavolo? AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH.
ok Basta ridere
Mi sono addormentato così tante volte durante la visione di sto film che più che averlo visto l’ho sognato
Bellissima recensione. Corro subito a vedere il film X’D
In realtà sto DAVVERO per uscire. A comprare “Amatissima”. In libreria indipendente, ovvio (la mia è la bellissima Irnerio a Bologna). Grazie Xena
In realtà sto DAVVERO per uscire… ma a comprare “Amatissima”. In libreria indipendente, ovvio (la mia è la bellissima Irnerio a Bologna). Grazie Xena
Io La Regina di Scacchi non l’ho ancora visto, ma comunque faccio parte di quelloi che quando si mettono a guardare un film su Netflix, su Prime o simili, spegne la luce, si mette sul divano col plaid, saluta cellulare e pc, e si guarda il film come se fosse al cinema, quindi devo dire che forse anche per questi motivi l’ho trovato molto coinvolgente sia dal punto di vista dell’orrore sia dal punto di vista del messaggio sociale.
Mi è piaciuto, anche se non al 100%. Cose che ho apprezzato: la durata contenuta (a meno che tu non stia facendo il film della vita, il dono della sintesi per me è sempre ben accetto), il sonoro sia musiche che effetti, l’ambientazione “periferia inglese demmerda”, gli attori. Cose che ho apprezzato meno: [SPOILER] il finale un po’ alla Babadook [/SPOILER], una certa mancanza di fantasia nella resa dei mostri/fantasmi e della parte più “tecnicamente” horror del film.
Riguardo alla questione dei film visti a casa piuttosto che in sala, purtroppo è assolutamente vero che casa e distrazione vanno di pari passo. E io sono uno che al cinema mal digerisce anche l’intervallo eh, specie se piazzato alla cazzo di cane. Però va detto pure che se durante il film sentiamo l’impulso di mettere in pausa, leggere le notifiche, mettere su i broccoletti ecc. magari è anche perché il film che stiamo vedendo è noioso.
AL netto dei difetti credo sia il miglior horror del 2020.