il romanzo Dark Harvest di Norman Partridge nel lontano 2006, quando uscì, in una di quelle listone di fine anno tipo “I migliori romanzi dell’horror dell’annata”. Da allora sono passati 17 anni ma, per quanto la mia memoria non sia più freschissima, mi rimangono comunque ancora addosso delle sensazioni e delle opinioni su quel libro. La prima e più importante, che fosse un libro indeciso su cosa volesse essere. Cioè: voleva essere Stephen King, ovviamente, e chi non vorrebbe?, ma provava anche a staccarsene in vari modi più o meno sottili.
Rispetto ai romanzi dell’orrore adolescenziale del Re, per esempio, faceva di tutto per affrancarsi dal qui e ora nel tentativo di astrarre e di raccontare una storia ambientata sì negli anni Sessanta, ma non contestualizzabile in quanto tale. King ha sempre voluto ricreare momenti storici precisi, parlando anche di prodotti, di marchi, e quindi di spirito dell’epoca; Partridge voleva invece parlare di spirito del posto, inventarsi prima di tutto del folklore, che in quanto tale è astorico, eterno e immutabile, o quantomeno, visto che parliamo pur sempre di Stati Uniti d’America, vecchio addirittura di un paio di secoli.

L’orrore senza tempo della provincia americana.
Dico tutto questo pur avendo ammesso di non ricordarmi benissimo il romanzo sul quale sto pontificando perché simili sensazioni ho avuto guardando Dark Harvest di David Slade, un progetto nato nel 2019, rallentato ovviamente da bla bla, e ora arrivato un po’ tristemente in streaming dopo una-notte-una al cinema (e tra l’altro solo in un numero selezionato di sale in giro per gli Iu Es Of Ei). Un film con l’ambizione di coniugare lo slasher classico, il folk horror e pure un po’ di massacro circa-politico alla The Purge, che guarda sì ovviamente a Stephen King e a Children of the Corn in particolare ma anche a sue derivazioni più oblique tipo The Village di Shyamalan… un progetto raffinato e consapevole insomma, con un’idea che si eleva (magari non di tantissimo) sopra il mero omaggio a colui che è stato inventore, maestro e anche assassino del genere.
La roba più divertente è che non solo il film di Slade riesce a catturare alla perfezione le ambizioni dell’opera da cui è tratto pur modificandola anche radicalmente in termini di struttura e anche pura e semplice trama, ma che dove fallisce lo fa negli stessi identici modi. Ci sono grossi problemi di tono, innanzitutto, che nel romanzo si traducevano in uno stile sempre a cavallo tra la folle sperimentazione e la ridicola pisciata fuori dal vaso di un adolescente mai cresciuto che si crede figo perché scrive tutto strano, e che nel film diventano invece un bizzarro e spesso malriuscito tentativo di scrivere uno slasher a tinte folk e metterci come protagonista il James Dean di TikTok. Era (il romanzo) ed è (il film di Slade) un’opera che se la sente calda, che vuole essere ribelle e moderna ma anche solenne e senza tempo, che ci prova durissimo. Stacco musicale sotto forma di SIGLA!
D’altra parte quand’è l’ultima volta che da queste parti abbiamo castigato l’ambizione? Meglio rendersi ridicoli per troppo entusiasmo come in quel ben noto video dell’Internet o tirare il freno a mano per paura della figuraccia e rigurgitare della sana mediocrità? In questo bizzarro ingestibile mondo binario nel quale tutto è solo “sì” o “no” per me Dark Harvest, lo dico subito così ci leviamo il pensiero, è un “sì”. Trovo solo molto curioso che non sia un “sì” sonoro e convinto perché è un film immaturo, proprio nel senso di adolescenziale, un film con i baffetti appena accennati che non sa se tagliarseli frettolosamente o coltivarli con orgoglio. Forse mi sono perso nella metafora, o forse nei ricordi, il punto è che è curioso che un’opera del genere, con certe ingenuità da ragazzino troppo entusiasta, venga da una vecchia volpe come David Slade.
Io voglio un bene dell’anima a David Slade, che aveva fatto capolino da queste parti l’ultima volta credo nel 2019 quando diresse l’episodio hipster dell’antologia altrimenti non hipster Nightmare Cinema. Ha fatto poca roba e sempre con giudizio – sì, anche quando l’hanno chiamato a dirigere un episodio di Twilight e lui ha provato volontariamente a far deragliare la saga. Qualche tempo fa ho rivisto 30 giorni di buio, un film che al netto di un bel cazzo di niente resta fighissimo, compatto, brutale, capace di sfruttare un’estetica tutto sommato semplice (è buio, ed è tutto blu) per creare un’atmosfera densissima, gelida e opprimente che da sola fa tre quarti dell’opera – il resto sono i grugniti di Josh Hartnett, e i vampiri ovviamente, quanto ci mancano i vampiri ignoranti e gore come quelli di 30 giorni di buio.

30 giorni di allergia.
Voglio bene a David Slade e quindi sono indeciso se complimentarmi con lui e la sua coerenza artistica oppure se sgridarlo perché non ci vediamo da anni e ancora non gli è venuta un’idea nuova. Con tutte le differenze del caso dovute all’ambientazione molto diversa, Dark Harvest è di nuovo 30 giorni di buio. È di nuovo blu (il film in realtà inizia che è arancione, quindi il grano è maturo, quindi arriva il momento del raccolto oscuro e intorno alla mezz’ora Slade attiva il suo filtro preferito e tu ti senti di nuovo a casa) ed è di nuovo tutto ipersaturo e megacontrastato (si dice, vero? L’ho letto in un libro serio). È ritmato senza essere frenetico. La gente parla poco e urla tanto.
Dove finisce la fedeltà alla propria visione e comincia la pigra scorciatoia? Non ne ho idea, ma ho l’impressione che qui e là Dark Harvest avrebbe beneficiato di qualche piccola o grande correzione di rotta, di qualche sfumatura in più, narrativa ma anche visiva. La storia è quella di un villaggio in mezzo al nulla delle Grandi Pianure, che da adesso per comodità chiameremo Stronzoville. La gente di Stronzoville nasce a Stronzoville e lì muore: nessuno se ne può andare, Stronzoville è un luogo di frontiera dove l’unica legge che esiste è endogena, ed è quindi anche una prigione. L’unica possibilità di fuga è la vittoria nell’annuale Corsa di Halloween, che è tipo la Corsa delle Uova di Gandino ma con più sangue.

Scene che a Gandino non vedrete mai.
La Corsa è poi il lato folk horror di tutta la faccenda. Tradizione vuole infatti che ogni anno ad Halloween il mostro “Sawtooth Jack”, un coso fatto di viticci e con la testa di zucca, si risvegli, o meglio fiorisca, visto che ha passato tutto l’anno nei campi a nutrirsi dei buoni prodotti della terra DOCGP. Il Grande Cocomero dunque si sveglia il 31 ottobre, e comincia a correre verso la chiesa al centro del paese. Sta ai giovinotti locali (e solo loro: le fanciulle non sono ammesse) di età compresa tra i 16 e i 19 anni andare alla caccia del mostro, corcarlo di mazzate e divorarsene le viscere, che sono composte di caramelle e altri dolciumi tipici del periodo. Il giovinotto vincitore diventa un eroe, la sua famiglia viene trasferita a forza in una casa fighissima nel lato ricco della città e a lui viene donata una macchina nuova fiammante e il permesso di uscire dai confini di Stronzoville.
È una mitologia un po’ faticosa e zoppicante, come d’altra parte lo era già nel romanzo, ma che almeno dà una struttura precisa al racconto fin dall’inizio e definisce chiaramente quali sono i gradi di libertà concessi a Slade. Che per quanto può (alla sceneggiatura è accreditato anche Norman Partridge, ma non ho capito se solo in quanto autore del romanzo o se abbia contribuito attivamente alle modifiche) riscrive il romanzo provando il difficile equilibrismo di ancorarlo a un periodo storico preciso (gli anni Sessanta) ma pure ad arricchirlo di tematiche in teoria universali ma all’atto pratico molto moderne – si veda l’aggiunta di una co-protagonista femminile dal carattere forte, che peraltro oscura completamente la sua controparte maschile, ma ora ci arrivo. E tutto senza dimenticarsi che al cuore della storia ci sta sempre il folk horror. Slade aggiunge cose, ne toglie altre, cambia completamente il finale, ma di base rispetta l’architettura e anche lo spirito del romanzo e mette in scena tutte le sequenze più importanti. O quasi. Ci arrivo.

Qui vedete bene il momento in cui il film abbandona l’arancione per virare al blu: questa cosa nel romanzo non succede, perché non è un libro illustrato.
La fortuna di Dark Harvest è che queste sequenze importanti sono poi quelle che interessano di più anche a noi fan dei film dell’horror. I giovani armati che scendono per le strade e massacrano qualsiasi cosa si pari loro davanti anche se si tratta di un normale stronzovillano (così si chiamano gli abitanti di Stronzoville) di mezza età che passava di lì per caso o per sfiga. Il mostro nei campi di grano. Il mostro in tutto il suo splendore: Slade non si risparmia, ha piena fiducia nella sua creatura e non la nasconde, anzi ce la sbatte gloriosamente in faccia più e più volte, e in molte di queste volte mentre sta facendo qualcosa di orribile a uno o più corpi umani.
Cioè: è un horror soddisfacente, quanto lo era il lato horror del pluricitato 30 giorni di buio. La differenza è che là quando il ritmo rallentava il film diventava una roba di freddo, sopravvivenza, claustrofobia e paranoia. Dark Harvest invece diventa tipo Gioventù bruciata fatto male, un progetto del quale nessuno sentiva davvero la necessità ed è per questo che non esiste. Mi spiace incolpare una singola persona perché poi ovviamente la responsabilità non è tutta sua ma di un film scritto per dargli troppo spazio al punto da arrivare a dimenticarsi del folk, delle tradizioni, del mostro, di tutto quanto, per diventare una storiella d’amore e incomprensioni familiari, di adolescenti senza futuro e senza progetti, di bullismo talmente crasso e rudimentale (e di cattivo gusto) da far sembrare le scene peggiori di IT una sottile allusione.

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Non voglio incolpare nessuno però questo tizio, Casey Likes, un cyborg creato in laboratorio per riscuotere consenso sui social network, è proprio scarso. A tratti è Occhi del cuore scarso. È il fratello minore del vincitore della Corsa dell’anno precedente, che da allora se la spassa in Calafohnia tra palme bikini e cocktailses, e in quanto tale non può partecipare a quella di quest’anno. Ma lui oh, vuole tantissimo farlo, perché si sente inadeguato, il figlio sbagliato, quello che è rimasto indietro. Il romanzo di Partridge qui e là scadeva nella stessa brutta parodia di cose che lo stesso King non sempre ha scritto benissimo; ma mascherava il problema moltiplicando i punti di vista e soprattutto eleggendo a protagonista indiscusso nientemeno che lo stesso Sawtooth Jack.
Slade invece punta tutto sul protagonista carismatico annodando tutti i fili narrativi intorno a lui, solo che si dimentica di prendere un tizio carismatico per interpretarlo e opta invece per “Casey Likes”, uno con così poco carisma che il suo soprannome è “Casey Likes”. E questo un po’ ammazza molte scene tra quelle in cui non c’è qualcuno che muore male. Gli va bene che la co-protagonista abbia abbastanza energia per entrambi e riesca quindi a salvare i momenti in cui sono insieme – mi fa ridere che lei si chiami Emyri Crutchfield, un cognome che si traduce profeticamente come “campo di stampelle”.

Emyri Crutchfield che rilegge con gusto tutte le scene in cui potrà oscurare il suo coprotagonista.
E insomma. Capito perché ci ho tenuto a specificare sopra che comunque per me Dark Harvest è un “sì”? Perché poi sapevo che sarebbe stato più interessante parlare delle ragioni del “no”. Torniamo a parlare di quelle del “sì”: è un horror in mezzo ai campi di grano che cattura alla grande l’atmosfera da Midwest e in particolare quella sensazione di trovarti in un posto dal quale non puoi fuggire anche perché se lo facessi, dove andresti? Intorno a te ci sono solo migliaia di chilometri di nulla. È il terreno fertile per la nascita di mostri, leggende e tradizioni senza senso ma che vanno rispettate “perché si è sempre fatto così” (mi fa sempre pensare a quella citazione apocrifa ma efficace che dice “tradition is just peer pressure from dead people”). Il mostro di Dark Harvest è bello, sanguinario e nasconde segreti da gotico americano che vale la pena scoprire. E soprattutto è un mostro che ci prova, a volte anche troppo. Pazienza se a volte non ci riesce.
Quote
«Sono ragazzi, cresceranno»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)«No»
(John Stronzo, sindaco di Stronzoville)«Oh Grande Cocomero, ti prego, non deludermi! Liberami dai miei nemici! Vendicami dei miei persecutori! ESCI FUORI, STUPIDO!»
(Linus Van Pelt)

“Non ti stai dimenticando qualcosa?”
Giusto! Preso dalla foga di parlare di tutt’altro, stavo per lasciarmi sfuggire un paio di note sul resto del cast. La prima è Elizabeth Reaser che è protagonista di un grandissimo momento di cinema. La seconda è un Luke Kirby posseduto dallo spirito del miglior Nicolas Cage e autore di almeno un paio di monologhi indimenticabili.
Visto di recente, ho apprezzato l’assenza di qualsivoglia spiegone. Divertente, con un bel ritmo e sangue al punto giusto.
Segnalo che a Gandino le piogge di sangue sono tutt’altro che rare.
Fonte: Mio nonno era di Gandino.
1) Se avete pensato come me che Likes deve essere ovviamente un arguto (vabbè) cognome d’arte per l’era dei social network vi informo che no, a quanto pare si chiama effettivamente Casey Nicholas Likes.
2) Premesso che apprezzo ovviamente la citazione a Linus Van Pelt (notata solo da Stanlio o esplicitata già dall’autore del libro? sarei curioso) e che sono il fiero possessore di tutti i volumi della collana Complete Peanuts, per me “Grande Cocomero” è un errore di traduzione imbarazzante e sogno che un giorno ce ne libereremo definitivamente; non è mai troppo tardi perché diventi una curiosità di Wikipedia, alla faccia della nostalgia, alla faccia di Linus di Radio DJ e alla facciaccia del film di Francesca Archibugi. Cominciamo tutti a dire “Grande Zucca”! Se io posso cambiare, e voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare!
3) Stanlio, mi sa che c’è qualche refuso nella prima frase.
Su 3) mi sa che no, sei tu che non hai riconosciuto il protagonista della foto di apertura…
Nice! Mi era sfuggito l’estroso rebus.
(Rimane però un bizzarro “quandì”).
Mi sa che quellə non era Lassie
Va bene, mi sfugge il riferimento culturale, per favore ho bisogno della spiegazione
Anche io ho letto e riletto la prima frase senza capire. Poi lessi meglio e capii.
Bello, ma con un worldbuilding atrocemente pasticciato. Non è chiaro ad esempio come facessero i giovini del paesello a far fuori ogni anno un mostro dotato di terrificanti poteri soprannaturali, tra cui fuoco infernale, super forza, volo e quant’altro. Cioè, interessante il fatto che non cerchino di spiegare NULLA, nè di tirar fuori una qualunque origin story che in sè sarebbe stata comunque deludente, il bello dei mostri è il mistero, però davvero ‘sta cosa non stava in piedi: quei branchi di ragazzotti passavano la nottata a distruggere il paese e ammazzarsi tra di loro, e nessuno, ma dico nessuno, pur sapendo che prima o poi ci sarebbe passato, ha mai provato a buttare giù un piano d’azione o comunque anche solo ad allenarsi per la faccenda? Cioè, gli unici a pensarci son stati quei poveracci che si sono nascosti per poi fare una brutta fine… Ah, e in pieno U.S.A. rurale, nessuno aveva un’arma da fuoco? Questa è fantascienza, non horror…
Mi aspettavo da parte di Stanlio almeno un accenno alle diverse citazioni ai Misfits e alle loro canzoni.
Film divertente, Slade al netto del fatto che oramai è diventato un mestierante professionista che ha diretto di tutto , riesce a mostrare la sua minima partenità sul film. Ovviamente il King è sempre presente, sempre pronto con il forcone a ricordare che lui rimane il re, gli altri scrittori horror possono alla buona imitarlo, mentre chi è dall’altra parte dell’oceano riesce tranquillamente a essere un suo pari (Clive Barker e Livquist).
Per il resto il film funziona bene, Jack il mostro è diventato evidente chi fosse quando si è vista l’assenza del fratello maggiore, e Slade ha giocato discretamente con questo. Poi è il film più Hallowen del’anno e serve alla bisogna. Il cast vuoi anche il protagonista anonimo serve alla bisogna, riesce ad essere credibile. Poi ovviamente stiamo parlando di ragazzini che vanno in giro ad ammazzare dopo non aver mangiato per tre giorni, ci stà. Sui poteri di S.Jack sono rimasto colpito positivamente, soprattutto per gli ammazzamenti volutamente efferatissimi, in cui i giovinastri vengono smenbrati e decapitati, con belle fontane di sangue. Insomma per me funziona, trovo un pò ingenerosa la rece che non contestualizza il genere secondo me, uno slasher con mostro a cui tutti danno la caccia, ma ribaltando il senso della creatura e soprattutto la cosa più importante di cui nessuno ha parlato, l’uomo zucca si nutre ma dona ai campi di mais la fertilità necessaria per un grande raccolto. Il sacrificio quindi SEMBRA necessario per il benessere della comunità che come in Midsommar nasconde i suoi segreti e ne trae forza.
Anch’io da piccola uscivo di senno per il fastidio: era un campi di zucche, era ottobre, che minchia di cocomeri hanno in America? Che nervoso. Ora sto cercando di tenere un basso profilo appositamente per mettermi di fianco al coglione che ha deciso di tradurre ad minchiam una cosa normale come una zucca e dargli un surplus di tormenti per l’eternità, perché per me il suo posto è l’inferno, ma non decido io. Bruno Cavallone, davanti a Dio! Di domenica pensavo di dedicarmi a Cannarsi, venite anche voi? Forse pregando devotamente la Grande Zucca riuscirò nel mio intento 🎃🎃🎃
L’ira mi ha fatto rispondere sotto il commento sbagliato. Chiedo scusa
@Stanlio nel famoso skit sul nazionalismo, Doug Stanhope definisce le tradizioni “dead’s people baggage” (“… quit carryin’ it. did you make it up?” “no, it was passed onto me” “pass it back”)
https://youtu.be/QsPDT5qHtZ4?t=105