Walter Hill ha segnato indelebilmente l’immaginario del genere action con uno stile inconfondibile: non ha bisogno di introduzioni ma di celebrazioni. In occasione del suo ultimo film, per la rubrica Le Basi, a voi il nostro speciale più ambizioso a lui dedicato.
Wild Bill è stato il più grande pistolero che il West abbia mai conosciuto. Non so quanti uomini abbia ucciso, ma erano più di trenta. E questo numero non tiene conto di quelli che ha ucciso durante la Guerra Civile. Da tiratore scelto gli vengono accreditati 35 nemici uccisi, tra cui il generale confederato McCulloch. Non so se sia vero. È impossibile per chiunque dire quanti uomini abbia ucciso in battaglia, mentre migliaia di altri uomini sparano intorno a lui. Ma Wild Bill ne ha uccisi più di trenta in scontri diretti. Ne ha uccisi dieci, da solo, in una singola battaglia: parlo di quando spazzò via la gang dei McCandless a Rock Springs, in Kansas, nel 1861, in quella che è la più eroica battaglia solitaria dell’intera storia della frontiera. I suoi risultati non sono stati abbelliti o ingranditi dall’immaginazione. Sto parlando di un record indiscutibile, di uomini uccisi in combattimenti leali. Se uno avesse voglia di cercarle potrebbe trovare ancora le loro tombe, i loro nomi intagliati sulle lapidi sparsi tra il fiume Missouri fino alle colline ai piedi delle Montagne Rocciose.
(il colonnello William Frederick Cody, noto come Buffalo Bill, in un’intervista a Walter Noble Burns per il The Blackfoot Optimist, 1911)
James Butler Hickok meglio noto come Wild Bill è stata una delle più grandi leggende del West, una frase che di per sé è ripiena di colonialismo e destino manifesto ed è quindi, volendo, ideologicamente scomoda – ma d’altra parte quale western non lo è? Per esempio questo di Walter Hill, terzo capitolo, secondo lui, di una trilogia cominciata negli anni Ottanta con I cavalieri dalle lunghe ombre e proseguita anni dopo con Geronimo (sul quale abbiamo il lusso di ben due pezzi diversi). Nato per passione e sepolto da un risultato al botteghino che avrebbe distrutto la carriera di gente con meno garra e meno esperienza del nostro Valter, Wild Bill non è ideologicamente scomodo perché è un film teorico più che biografico, acido più che storico, ed è in ultima analisi una riflessione sul concetto stesso di “leggenda del West” inquadrato però in un contesto nel quale i nativi non sono neanche più un fattore ma una roba a metà tra il folklore e l’arredamento. Non è un film di cowboy vs. “indiani pellerossa” ma un film di ex cowboy vs. ex cowboy; un film che parla di come, in una terra relativamente senza legge e fatta di vuoti più che di pieni, le semplici azioni di un uomo possano gonfiarsi fino a diventare imprese eroiche, trasformando quell’uomo in un simbolo su due gambe, con tutto il peso che questa condizione si porta dietro. E di come questa mitologia molto specifica di quel tempo e di quei posti finisca sempre inevitabilmente per trasformarsi in farsa, come ci ha insegnato già 150 anni fa il Buffalo Bill’s Wild West e come hanno mirabilmente raccontato, in uno dei rari casi di remake che migliora l’originale con un finale azzeccatissimo, i Coen in Il Grinta (non a caso, credo, un altro film con Jeff Bridges).

“Che mi venga un colpo se quello non è il vecchio Bill!”
Wild Bill è fondamentalmente un Frankenstein. Ufficialmente attinge da due fonti: lo spettacolo teatrale Fathers and Sons di Thomas Babe, tutto ambientato nel saloon dove il protagonista si becca una pallottola nel cranio, e il romanzo Deadwood di Pete Dexter (autore tra le altre cose della sceneggiatura di un film dove Nicole Kidman piscia su Zac Efron). Ufficiosamente attinge dal fatto che, quando si parla di James Hickok, è diventato ormai impossibile distinguere la cronaca dalla fanfaronata, soprattutto in ragione del fatto che lo stesso Wild Bill fu il primo ad alimentare il suo mito ingigantendo le sue imprese e, in certi casi, inventandosele di sana pianta. Mica lo faceva solo lui, eh? È la frontiera, baby! Che importa se hai davvero ammazzato dieci uomini da solo? Quel giorno, alla stazione di Rock Creek, nel Nebraska, c’eri solo tu e quei dieci cadaveri. Che dite? I testimoni? Ma secondo voi i testimoni preferiscono rivelare la verità, quale che sia, oppure raccontare a tutti di avere assistito a una delle più grandi sparatorie della storia del West?
Prendete il succitato Fathers and Sons. La cronaca ci dice che Wild Bill fu ucciso dal signor Jack McCall, un tizio senza particolari qualità che perse una partita a poker contro di lui e si sentì offeso dalla sua offerta di pagargli almeno la colazione, visto che l’aveva appena pelato. Futili motivi, ma McCall sparò a Wild Bill mentre era ubriaco fradicio, e quindi non particolarmente lucido. È una storia un po’ squallida, che Thomas Babe vira verso il drammone da telenovela trasformando McCall nel figlio illegittimo di Bill, il cui odio atavico è dovuto al trattamento che il pistolero ha riservato a sua madre Susannah (don’t you cry for me. I come from Alabama with my banjo on my knee). Non è improvvisamente molto meglio? Una versione più affascinante di un episodio altrimenti uguale a mille altri e che, se non fosse stato per il nome della vittima, sarebbe finito nel dimenticatoio pochi secondi dopo l’impiccagione dell’assassino.
E chi ci dice che McCall non fosse davvero il pargolo non riconosciuto del più grande pistolero del West? Il punto di Wild Bill è tutto qui: più ci si allontana dalla East Coast, più ogni racconto, ogni storia narrata di notte intorno al fuoco sotto il cielo stellato delle Grandi Pianure, sfuma nella leggenda e, con gli anni e i chilometri, diventa canone. Nella biografia ufficiale di Wild Bill, per esempio, l’autore Joseph G. Rosa sostiene che in realtà il nostro eroe abbia ucciso sei, forse sette persone nel corso della sua vita, di certo non trenta e di certo non dieci contemporaneamente senza venire sfiorato manco da un proiettile. Ma questo lo diciamo noi dal calduccio delle nostre camerette del XXI secolo. 150 anni fa, nel Nebraska o nel Wyoming o nell’Oklahoma, Wild Bill aveva realmente sforacchiato gente a manciate, nel senso che se lo incontravi in un saloon il tuo comportamento era informato da questa leggenda (e da parecchie altre), non certo dal tuo amore per la cronaca e per la verità. Voglio dire: anche se fossero stati solo sei o sette, perché correre il rischio di diventare il settimo o l’ottavo della lista?

“Guarda, là in mezzo ai cactus: è l’ottavo!”
Per questo motivo chiamare Wild Bill un film biografico è come chiamare la Bibbia un libro storico – il parallelo non è casuale considerando che Walter Hill ha spesso ribadito come per lui il western racconti storie da Antico Testamento. È un film sballatissimo con un ritmo da peyote, che ci racconta pezzi selezionati della vita di Hickok mischiati a sogni di droga, flashback in bianco e nero, balzi temporali tracciabili solo seguendo l’evoluzione dei baffi di Jeff Bridges. È un’allegra cialtronata, nel senso che è una storia popolata da cialtroni, da gente che aveva vissuto gli anni d’oro della frontiera e che proprio per questo stava riconoscendo i primi segni della sua imminente fine: il treno che ti porta ovunque in poche ore, lo Stato federale sempre più presente, l’arrivo della burocrazia e del terziario e del capitale. L’aspetto più affascinante, credo, di quell’altrimenti mostruosa opera di assimilazione forzata e genocidio che va sotto il nome di “colonizzazione degli Stati Uniti d’America” è il suo carattere inevitabilmente transitorio: si parte da est, ci si sposta verso ovest trascinandosi dietro la c.d. “civiltà”, e una volta arrivati in California la parabola è finita. Cioè: la vita del colono, dell’abitante del selvaggio West, del trapper o del soldato o del cercatore d’oro, nacque con già una data di scadenza impressa sopra (ufficialmente la frontiera muore nel 1912 con l’annessione di Arizona e New Mexico, gli ultimi due Stati a entrare nell’unione). E quindi le sparatorie, i duelli, gli assalti alla diligenza, le rapine alle banche, le notti stellate, i coyote, un fuoco che brilla in mezzo alla pianura, la scoperta di nuovi sentieri, nuovi passi, nuove valli e nuovi fiumi… tutta roba che per pure ragioni geografiche non sarebbe potuta andare avanti all’infinito.
Chi ebbe la (discutibile) fortuna di nascere, che ne so, alla fine del Settecento poté godersi la frontiera per tutta la vita e in tutto il suo splendore. Gente come Wild Bill, Calamity Jane, Buffalo Bill… era troppo giovane per sperare di poter fare il cowboy per sempre. Era gente destinata a vedere il proprio bizzarro, violento e anarchico mondo sparire sotto la calda coltre dell’urbanizzazione. E quindi, forse, credo anche per questo, fu gente che cercò di spremere il massimo da ogni singolo secondo, anche inventando, anche abbellendo, pur di lasciare in eredità un po’ di mitologia a chi fosse arrivato dopo. Cialtroni, appunto, ma con una certa frizzante voglia di mitopoiesi.
Ve la dice meglio Walter Hill, ancora una volta: per lui, Wild Bill è un film su
un personaggio più che su un episodio. Perché credo che la cosa più importante non siano le sparatorie, ma la sua personalità, la sua capacità di non prendersi sul serio. Capiva la sua stessa leggenda, la alimentò ma ne rimase anche prigioniero, divenne la sua raison d’etre ma allo stesso tempo una gabbia che lo limitava

“Lo vedi come mi sento limitato?”
L’impressione guardandolo è che sia un film scritto di getto e a flusso di coscienza, e girato circa allo stesso modo. Ancora Hill raccontava, ricordando il film negli anni successivi, di aver lavorato benissimo con Jeff Bridges, per il quale aveva solo stima e ammirazione; ma anche di averci litigato spesso, perché il futuro Lebowski era uno che voleva girare una scena mille volte per trovare l’interpretazione giusta, mentre il Valter preferiva un approccio più spontaneo. La narrazione è volutamente sfilacciata, se ne sbatte della tempolinea e dipinge piuttosto una serie di vignette nel corso delle quali il protagonista non segue alcun tipo di arco narrativo tradizionale: le cose che fa e che pensa all’inizio del film sono le stesse che ribadisce testardamente fino alla fine, e il suo motto è “io non chiedo scusa”, un voto rispettato fino all’ultimo secondo. Tutto questo perché le leggende non hanno un arco, tranne quello che hanno seguito prima di diventare tali. Il James Hickok di Wild Bill è una celebrità un po’ datata, una figura mitologica che esiste per ricordare le sue imprese passate, non per compierne di nuove.
E identico discorso si può fare per tutta la varia umanità che gli ruota attorno. Charley Prince (John Hurt), gentiluomo inglese volato negli Stati Uniti in cerca di avventura, inventato di sana pianta per dare al film una voce narrante. Calamity Jane (Ellen Barkin), che anche nella vita vera era neanche troppo segretamente innamorata di Wild Bill (al punto da sostenere, nella sua autobiografia, di esserselo sposato all’insaputa di tutti). Solo Jack McCall (David Arquette in quello che è senza dubbio il ruolo della vita), il teorico villain ma in realtà il vero punto di vista esterno e non adorante dal quale guardiamo alla vita e alle imprese di Bill, ha una parvenza di evoluzione, ed è giusto che sia così: Hickok, Jane, Buffalo Bill sono figure mitologiche, semidivinità di un pantheon sabbioso e bruciato dal sole – qualcuno si è mai lamentato che nei miti greci Zeus non ha un arco narrativo soddisfacente?

James Hickok partecipò anche, per qualche mese, a uno show chiamato Scouts of the Plains, organizzato dal suo amico William Cody: i due salivano insieme sul palco a ricordare le loro avventure, inventando in questo modo il cosiddetto “double Bill”. Se però Buffalo Bill era un furbone vero e aveva capito come vendersi per sopravvivere alla morte della frontiera, Wild Bill era allergico al teatro: durante una serata sparò alle luci di scena perché gli davano fastidio agli occhi (soffriva di glaucoma). Venne licenziato poco dopo. Ovviamente anche questa storiella potrebbe essere una leggenda: sempre la sua biografia sostiene invece che abbia sì mollato lo spettacolo per via del glaucoma, ma senza mai davvero sparare dal palco o fare una di quelle cose pazze che si vedono anche nel nel film di Hill – v. foto sopra.
Wild Bill andò malissimo al box office. 2 mijoni d’incassi a fronte di un budget di 30. Secondo Walter Hill la colpa è di questo:
un trailer che, dice, ti vende un film molto diverso da quello è poi realmente. Ha ragione, ma paradossalmente credo che il vero Wild Bill avrebbe apprezzato questo taglio più del film stesso: sembra che si stia parlando di una baracconata spaccona e strapiena di sparatorie e one liner, quando poi in realtà, be’… le sparatorie ci sono, certo, e di grande livello!, voglio dire, è Walter Hill. E ci sono un paio di risse da taverna sontuose, una delle quali piazzata proprio a inizio film per farti salire subito a bordo del carro. Ma in generale Wild Bill è un’opera riflessiva e fatta di silenzi, grugniti e visioni psichedeliche. Quasi teatrale, popolata di maschere (la mia preferita: Christina Applegate nell’irrinunciabile ruolo della prostituta saggia), ambientata su set altrettanto idealizzati – il saloon, le strade fangose, le pianure con i bisonti e le piattaforme funebri dei nativi – e che vaga più che procedere.
Una roba meravigliosa insomma. Potentissima. Da qualche parte ho letto un’intervista nella quale chiedono a Walter Hill se sia ancora convinto che Wild Bill sia il suo western migliore. Walter Hill risponde circa “non mi ricordo manco di avere detto ‘sta cosa ma mi piace”. Che è poi lo stesso meccanismo con cui nascono certe leggende. È la rule of cool, in fondo, e Wild Bill Hickok ne è stato uno degli inventori, e Wild Bill è un film che, a conti fatti, parla proprio di questa roba qua. Il West è morto (anche) in South Dakota il 2 agosto 1876, viva il West.

Nella foto: uno a cui piace il West.
Vecchio giornale locale del South Dakota quote
“Uh, wicke-wild, wild / Wicky-wicky wild / Wickey wild, wicky-wicky wild, wild / Wicky-wicky wild, wild west”
(Will Smith, paroliere)

ADDENDA
Wild Bill non è ovviamente l’unico film della storia a parlare di Wild Bill, anzi. Il più famoso è La conquista del West di Cecil B. De Mille, nel quale Hickok è interpretato da Gary Cooper. Mi piace però segnalarvi un film per la TV del 1964, un episodio della serie antologica La grande avventura nel quale Bill è interpretato da Lloyd Bridges, il che rende la famiglia Bridges l’unica ad aver prestato due diversi membri al ruolo. Infine, pensate!, c’è un film del 2017 intitolato Hickok. Wild Bill è interpretato da Luke Hemsworth. Passate oltre.
La scena di Wild Bill che per pura sbruffoneria spara guardando da uno specchio valse allora il prezzo della VHS (e costavano care), simile a quella di un grandissimo Ace Hanlon/Lance Henriksen in TQATD di Raimi che scende con capriola dalla sella del cavallo centrando l’ asso in mano alla bambina….
Jeff Bridges grande e gran fazza da baffo pari a Kurt Russell/Wyatt Earp, per il resto uno dei western minori di Walter Hill ma pur sempre gustoso.
Oddio, dire che il remake de Il Grinta (gran bel film, sia chiarissimo) migliora l’originale è un’affermazione molto molto pesante…
Il finale, non tutto il film. Solo il finale. Cogburn che ormai è diventato come Wild Bill e lavora controvoglia in un Wild West Show. Il finale dell’originale è esattamente l’opposto (Cogburn che se ne va verso il tramonto dimostrando di non essere troppo vecchio per queste stronzate). Per me quello dei Coen (che è tipo il finale del Barone di Munchausen di Gilliam) funziona dieci volte meglio.
Ok prendo atto della precisazione. Però io la vedo al contrario, proprio nell’ ottica dello scegliere sempre la seconda tra la verità e la leggenda.
ah se è per quello per me migliora ogni singolo minuto dell’originale…ma de gustibus
Grazie per la recensione, non vedo l’ora di vederlo, e confrontare Jeff Bridges al Wild Bill che mi è rimasto più impresso: l’incredibile interpretazione crepuscolare, scocciata e depressa di Keith Carradine nella serie Deadwood, con un Bill profondamente schifato dalla propria leggenda. Quanto a Jack McCall difficile che si possa superare l’odioso Garret Dillahunt.
Concordo: stavo per scriverlo io, poi ho visto che fortunatamente qualcun altro aveva già citato Carradine e Deadwood!
Ma vera (l’affermazione)!!I Coen sono il meglio
McCall come quello di The Equalizer? Che strana koincidenza!!11!1!!!
Comunque Jimmy Hickok era il mio personaggio preferito de I Ragazzi della Prateria.
Quindi ampliando il Western Cinematic Universe aggiungiamo alla lista anche Josh Brolin nelle vesti di Wild Bill (non a caso del gruppetto era considerato il miglior pistolero).
“ McCall come quello di The Equalizer? Che strana koincidenza!!11!1!!!”
L’ho pensato anche io
Direi che Carradine non di batte.
Volevo rispondere a Spike, comunque Grandi i Ragazzi della Prateria, con in Antony Zerbe in stato di grazia.
Bei tempi quelli della trico-isteria collettiva in cui tutti avevamo i capelli fino al culo.
Recensione azzeccata al 100 per 100 e film davvero godibilissimo.
Mai considerato un Western “minore”