Quand’ero piccola c’era questo disco che adoravo, nei miei ricordi è quello con cui ho imparato come si metteva su un vinile. Era triplo, dentro una custodia di cartone color crema, s’intitolava The Last Waltz. Mio papà me l’aveva raccontata così: «C’era questo gruppo che si chiamava The Band, così, semplicemente, “il gruppo”, avevano un discreto successo e almeno una di quelle canzoni che hanno sentito tutti, e un giorno di punto in bianco hanno deciso che si sarebbero sciolti e allora hanno organizzato un grande concerto, hanno invitato un sacco di amici, anche un sacco di amici importanti, Bob Dylan, Joni Mitchell, Muddy Waters, Neil Young, hanno suonato tutti insieme per l’ultima volta, sapendo che sarebbe stata l’ultima, è stato molto bello, ed è venuto fuori questo disco». Solo qualche anno dopo, un po’ più grande, ho scoperto che di quel concerto esisteva anche una versione filmata, che a filmarla era stato Martin Scorsese, e che The Last Waltz: Il film era considerato uno dei migliori film concerto di sempre.
Da allora me lo riguardo, ogni tanto, The Last Waltz. L’ho rivisto da poco, il giorno che è morto Robbie Robertson, che della Band era il leader e ufficialmente la mente (e infatti poi è venuto fuori che un po’ di beghe c’erano in realtà, dietro le quinte, che l’idea dello scioglimento era soprattutto sua, e più avanti il gruppo si è rimesso insieme senza di lui), e che dopo The Last Waltz ha continuato a collaborare intensamente con Martin Scorsese, componendo e/o curando per lui le colonne sonore di robette tipo Toro scatenato, Re per una notte e Casino, e poi di tutti i suoi film più recenti, da Wolf of Wall Street fino a quest’ultimo Killers of the Flower Moon. Killers of the Flower Moon è dedicato a lui, come si legge sui titoli di coda, ed è probabilmente una dedica di valore doppio, perché Robertson era un canadese di origini native, precisamente cayuga e mohawk, ed era cresciuto nella Riserva delle Sei nazioni, vicino a Toronto. E a un certo punto della sua abbastanza incredibile carriera musicale ha intrapreso anche un celebrato lavoro di riscoperta della musica indigena nordamericana.
The Last Waltz è un film concerto all’apparenza anche abbastanza canonico (anche se è un po’ uno di quei casi in cui ha finito per rappresentare uno standard che tanti hanno seguito), in realtà intriso di malinconia dolciastra, di un senso di fine che prende l’esperienza della Band per fotografare un po’ quella di un’epoca tutta, il rock’n’roll, la controcultura, insomma, quando viene girato è il 1976 e le speranze e i fermenti degli anni 60 si sono ormai belli che trasformati nella disillusione dei Seventies. Scorsese ha 34 anni, che è un po’ quell’età in cui spesso realizzi che, anche se non sai bene quando è successo, sei diventato definitivamente adulto, ti metti a rimpiangere la gioventù perduta, la metti anche giù un po’ dura e fai il melodramma. Oggi invece Martin Scorsese di anni ne ha 81. È, anagraficamente, vecchio. Ha fatto più capolavori dopo The Last Waltz di quelli che aveva fatto fino a quel momento. Killers of the Flower Moon è il suo secondo film di fila che viene facile definire “film testamento” (forse il terzo? Contiamo anche Silence?), eppure Martin non ha nessuna voglia di celebrarsi il funerale, di indulgere nella malinconia dolciastra della fine di un’epoca, anzi. È ancora giovanissimo, fa dei TikTok adorabili con la figlia ventenne Francesca (a quanto pare lei glieli estorce con l’inganno), si è pure fatto Letterboxd (più o meno), e soprattutto rilascia interviste da spezzare il cuore, rivelando senza timori come si sente uno che dentro è giovane ma fuori no.
«Il mondo intero mi si è aperto davanti, ma è troppo tardi. È troppo tardi» dice. In che senso, gli chiedono? «Sono vecchio. Leggo roba, vedo cose. Voglio raccontare storie, e non c’è più tempo. Quando Lucas e Spielberg consegnarono l’Oscar a Kurosawa, lui disse: “Sto cominciando solo ora a vedere le possibilità di quel che il cinema può essere, ed è troppo tardi”. Aveva 83 anni. All’epoca mi chiesi: “Cosa vuol dire?”. Adesso lo so, cosa vuol dire». [Stringe un po’ il cuore anche la risposta di quel patatone di Del Toro, tra l’altro. Guillermo vieni qui, abbracciamoci tutti insieme].
Killers of the Flower Moon è pieno di funerali. Inquadrature di persone morte, composte sul proprio letto o nella bara, una voce fuori campo – non una voce qualsiasi, la voce di Mollie – che ci dice quanti anni avevano, chi erano, come sono morti, e aggiunge: «No investigation». La prima scena del film è un funerale, anche se non viene seppellita una persona, ma una pipa osage, rappresentazione di un’intera civiltà, di un preciso modo di vivere. Da quella sepoltura esce l’oro nero, che è insieme fortuna, e morte. Perché il film si apre largo, “inquadra” un tutto, e poi si stringe, sempre di più, particolarmente su un trio di personaggi – e ancora di più su uno di questi tre, l’Ernest Burkhart interpretato da Leonardo DiCaprio –, e intanto continuano a consumarsi morti violente, a celebrarsi funerali (c’è anche un matrimonio, a un certo punto, ma mai come in questo caso si può dire che “il matrimonio è la tomba dell’amore”…). Per certi versi, l’andatura del film rispecchia un po’ la sua scrittura: Killers of the Flower Moon è tratto da un libro di David Grann, in italiano edito col titolo Gli assassini della terra rossa, che ha la forma e il passo del true crime, e racconta questa storia incredibile (nel senso che a tratti è talmente disumana che si fatica a crederci) utilizzando, sì, alcuni protagonisti come “àncora”, ma comunque tracciando anche un affresco storico vasto e preciso, e senza temere di intraprendere deviazioni per seguire altri personaggi che via via si affacciano sulla vicenda. Il sottotitolo del libro è Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’FBI. Una storia di frontiera, che è una perfetta sintesi; essendo un true crime, poi, si comporta anche come tale, costruisce un mistero, apparecchia la cospirazione, e lascia che sia l’indagine a rivelare la verità.
E all’inizio anche Killers of the Flower Moon doveva essere così, DiCaprio doveva interpretare Tom White, l’agente dell’FBI che guida l’investigazione quando finalmente, dopo un fiume di morti e omicidi rimasti senza colpevole, il governo federale si degna di mandare qualcuno a dare un’occhiata in questa riserva degli osage dove ormai tutti parlano esplicitamente di “regno di terrore”. Ma poi Martin ha deciso di cambiare tutto, di ribaltare ogni cosa (ed è uno dei motivi, insieme alla pandemia, per cui per finire questo film ci è voluta una vita). Quella di Tom White sarebbe stata una storia già vista, il racconto di un (letteralmente, ahah) White savior, e un procedurale poliziesco tutto sommato non particolarmente innovativo. Scorsese ci ripensa, e fa una cosa che spesso riesce molto difficile ai quarantenni, figuriamoci agli ottantenni: cambia punto di vista. Potrebbe scegliere quello di Mollie, è vero, gliel’hanno fatto notare in tanti. Mollie è un grande personaggio, è insieme a White la vera protagonista del libro di partenza, ha una storia pazzesca (anche prima e dopo i fatti criminali di cui si parla qui), e sullo schermo è interpretata da Lily Gladstone, che fa un lavoro impressionante quasi solo con gli sguardi, i sorrisi, la presenza scenica. È una domanda legittima: perché non è lei la protagonista di questa storia? Se il film è – come indiscutibilmente è – dalla parte degli osage, non sarebbe più giusto che l’eroe fosse un’osage?
È un film che mi precipiterei a vedere il film che spero un giorno qualcuno (un/una regista indigeno/a, magari?) farà su Mollie Burkhart. Ma Scorsese fa un’altra scelta, che è doppia: non solo adotta il punto di vista di Ernest ma, nel farlo, decide che Killers of the Flower Moon non sarà più davvero un true crime, un giallo, un poliziesco (e si sposta frequentemente più dalle parti di epiche drammatiche e sentimentali tipo Il gigante, come sottolinea lui stesso in quest’intervista a Letteroxd in cui elenca ispirazioni e corrispondenze cinematografiche) . Il “mistero” dura al massimo 25 o 30 minuti, a seconda di quanto tempo passa per ogni spettatore tra l’introduzione di Robert De Niro e la realizzazione che Robert De Niro è un pezzo di merda. Dopo, restano altre tre ore.
Tre ore in cui tu sei costretto a stare lì, a testimoniare questa cosa, e a testimoniarla stando nei panni di uno che non è nemmeno il capo degli stronzi, non è la mente criminale, non è un villain affascinante. È un povero stronzo, e basta. Non abbastanza intelligente, un debole, (letteralmente) “senza” fegato, che «ama i soldi», capace di una dissociazione cognitiva immensa, capace di convincersi di amare sua moglie mentre la avvelena e le uccide attorno l’intera famiglia. Non è solo la banalità del male, Ernest Burkhart. È il mistero della banalità del male, perché in effetti non è facile capirlo, è un nodo che non si scioglie facile, anzi, non si scioglie proprio. È scemo, ma non è completamente scemo, perché comunque riesce a navigare quest’ennesimo universo mafioso scorsesiano, dove, ancora una volta, tutti dicono una cosa diversa rispetto a quella che intendono, e tutti comunque capiscono quel che si deve capire. Killers of the Flower Moon è ancora una volta un gangster movie, e nei gangster movie non è che ci siano dubbi su chi sia l’assassino. Ma, e in questo è la prosecuzione perfetta del discorso di The Irishman, è un gangster movie spogliato d’ogni fascino, d’ogni mitologia. Le rapine finiscono malissimo, gli omicidi sono stillicidi, oppure raccontati da lontano, in modo secco, brusco, spoglio. «Da che mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster»: ti pigliavi bene a sentire questo incipit? Okay, allora adesso fai Ernest Burkhart per tre ore e mezza, poi dimmi come ti senti.
Se Killers of the Flower Moon è un western, poi, lo è allo stesso modo: al genere che più di tutti è fatto per costruire mitologia, per «stampare la leggenda», Scorsese toglie ogni aura mitica o leggendaria. Il racconto della Frontiera è da sempre quello di uno scontro irrisolvibile tra “natura selvaggia” e “civilizzazione”, e la cosa davvero interessante dei western è che quale tra le due cose sia la “cosa buona” e quale la “cattiva” non è sempre uguale, o fisso, tra film e film, e a volte anche dentro uno stesso film. In Killers of the Flower Moon siamo nei primi anni 20 del Novecento, la wilderness totale è già stata sconfitta, sottomessa, conquistata – in questo caso la terra è direttamente perforata dalle trivelle petrolifere –, ma il processo di “civilizzazione” è ancora in corso, e lo si capisce bene osservando il mutamento del paesaggio urbano nel corso del film, che si trasforma facendosi via via più “solido”, più “permanente”. Ma è una “civilizzazione” che non è davvero tale, è barbarica, corrotta e meschina, un arraffare cieco al grido di «I love money!», un brulicare di piccoli criminali e truffatori, un territorio di confine in cui alla parola “fuorilegge” non corrispondono certo (anti)eroi giovani e belli. È un possibile fuoricampo di Gangs of New York (o Gangs of New York è un fuoricampo di questo, vedete voi), che dice la stessa cosa: «L’America è nata nelle strade», nella violenza, nel sangue, nella sopraffazione. Si è costruita su una compulsione ad afferrare, ammassare e consumare, una compulsione ingorda, ininterrotta e insaziabile (Bill Hale e soci, in fondo, sono gli antenati dei protagonisti di The Wolf of Wall Street). Si è edificata sul genocidio, il razzismo, il suprematismo bianco: il fatto che il massacro di Tulsa sia avvenuto lo stesso anno in cui inizia “il regno di terrore degli osage”, e a non troppi chilometri di distanza, sarebbe una coincidenza agghiacciante se non fosse che, no, non è una coincidenza. «È così che deve andare», ripete De Niro/Hale, prefigurando come inevitabile un destino di morte che lui stesso sta contribuendo a rendere tale.
Sì, è un film politico, Killers of the Flower Moon, fatto di scelte politiche (poi come sempre l’efficacia delle singole scelte è in parte soggettiva, ma il punto è che sono lì per un motivo chiaro). Anche la lunga durata (quante menate si son fatte sulla lunga durata di questo film? Il problema con i film lunghi non è certo con i film lunghi di Scorsese, possiamo per favore lamentarci di robe davvero gravi tipo le 2 ore e 40 del prequel di Hunger Games?) fa parte di queste scelte, il film deve essere, a un certo punto, tedioso e opprimente e soffocante, senza essere catartico, perché, se il punto di vista di Scorsese non può che restare quello di un uomo bianco, vuole obbligarci a confrontarci con quello che essere bianchi significa (spero non sia il caso di dire #notallbianchi: stiamo facendo, noi e Scorsese, un discorso di sistema). Ed è politico pure in quel finale, che volutamente è spiazzante, disorientante, ma è anche, beh, bellissimo: riesce nello stesso tempo a meravigliarsi e meravigliarci ancora una volta della “magia” della messa in scena (come in Hugo Cabret, un film che siccome era per ragazzi è stato un po’ sottovalutato, ma è anche stato tra le altre cose una delle poche volte in cui qualcuno che non era James Cameron sapeva usare il 3D) e a ricordarci che ogni volta che raccontiamo una storia la stiamo tradendo, la stiamo piegando ai nostri scopi (auto)promozionali, stiamo cedendo allo spettacolo (e al commercio), raccontando delle bugie e cancellando un pezzo di verità. È un’altra cosa che riesce difficilissima ai quarantenni, figuriamoci agli ottantenni, di solito: l’ammissione, necessaria, di un limite.
Per la quasi totalità del film, la (per quanto mi riguarda, meravigliosa) colonna sonora di Robbie Robertson non ci abbandona mai. Sta lì sotto, sempre, come un rombo, un rombo blues-rock (gli elementi di musica indigena ci sono, ma mai usati in modo stereotipato), un giro di basso incessante, come un cuore che batte e si dibatte, e costruisce tensione (il critico del “Los Angeles Times” dice che Robertson ha costruito un “ecosistema musicale”. e mi sembra una definizione azzeccata). Non sono certa che il momento in cui nel film appare Scorsese sia l’unico in cui la musica tace, ma, in quel breve minuto, in quel «there was no mention of the murders», il silenzio c’è, ed è assordante, commovente, significativo. Non è al silenzio, però, che Killers of the Flower Moon ci abbandona: ma, di nuovo, alla musica, alla danza. A qualcosa che abbiamo perso. O, forse, a un’alternativa.
DVD-quote suggerita:
«Il colonialismo è la tomba dell’amore»
Xena Rowlands, i400calci.com
Nooooooo io speravo di trovare Napoleon oggi, ero pronto al dibattito (film con miliardi di problemi ma bello da vedere) e invece mi ritrovo Scorse e allora confesso: che palle! Mi cadono le palle solo a vedere le sue locandine, sempre gli stessi autori, una durata che vaffanculo chi cazzo ti credi di essere per prenderti 4 ore della mia vita ogni volta (come diceva Noel Gallagher su non ricordo chi “che cazzo fai un doppio album? chi ti credi ti essere?” etc.). Non riesco neppure a leggere la recensione perché alla riga 2 mi cadono i coglioni per terra e insomma dopo essermi trattenuto per tanti anni oggi vuoto il sacco, quanto cazzo sei noioso Scorsese!
Beh niente da dire Ruper, questo è uno dei tuoi interventi più analitici e profondi.
Il film di Scorsese non l’ho ancora visto.
La recensione però l’ho trovata assai bella (e, devo dire, mi ha ulteriormente invogliato a vedere il film).
p.s.: anche a me piacerebbe leggere la recensione di Napoleon (dopo aver letto con piacere quella su KOTFM).
Bella recensione, finché tratta di The Last Waltz; pregevolissima anche dopo in realtà, però che due palle. Il film non lo vedrò manco morto perché Scorsese ha CHIUSO con quella Merda Su Commissione di The Wolf of Wall Street (a proposito della quale aggiungo, così per sfizio, ho conosciuto il milionario che ha comprato e rimesso in sesto la supercar del cazzo sfranta da DiCaprio).
Non se ne può davvero più di Scorsese, DiCaprio e DeNiro. Andassero in pensione i primi due e affanculo il terzo.
Hoka Hey
@Ruper: sei un grande!
Errata Corrige.
Affanculo il secondo, in pensione…ma sì, dai affanculo tutti e tre.
dopo questa perla immagino che confronti su Napoleone…
Vedo che ti ispiro come al solito: forza, puoi fare di meglio.
O no?
guarda scorsese non mi interessa da anni, ma se il grido potenzialmente comprensibile di “sempre gli stessi autori” nasce dal fatto che volevi RIDLEY SCOTT, insomma c´ha 4 anni piu di martin, evviva le nuove leve proprio
Immagino che mi attirerei un bel po’ di antipatie a dichiarare che mi ritrovo molto in quello che ha scritto il signor Tevere
In tutta onestà, non mi importa niente neanche di Napoleone o di Ridley Scott
Io un film su Napoleone lo guarderei anche volentieri (credo), se fosse interpretato da CHIUNQUE tranneJoaquin Phoenix (o Jesse Plemons). Harvey Keitel da giovane sarebbe stato perfetto.
E qui vediamo proprio quanto sono usati male i commentari oggi.
Quelli che nella maggior parte dei casi sono commenti di pancia (talvolta finendo per sfociare nell’offesa gratuita), i quali contibuiscono parecchio all’imbarbarimento sociale a cui stiamo assistendo.
Che se li chiudessero staremmo tutti meglio. Davvero.
Anche chi non ci starebbe ora, riconoscerebbe in seguito di stare meglio.
Non che ci sia nulla di male a valutare le cose in base al proprio gusto.
Quello che trovo controproducente è il poterlo scrivere liberamente sui commentari, diffondendo disprezzo per il puro gusto di farlo.
@phantom
Ti sbagli di grosso.
Su un sito di cinema i cui commentatori sono gli stessi da anni, frasi all’apparenza lapidarie sono indirizzate principalmente a chi ha letto le tonnellate di materiale pubblicato in precedenza e, qualora contestualizzate, esprimono opinioni e contenuti precisi . Tra i nuovi fruitori, i medesimi commenti potrebbero, se scritti in maniera arguta e talvolta spiritosa, come sovente avviene, indurre curiosità e motivazione all’approfondimento.
Purtroppo (o per fortuna, penserai tu), non ho licenza di condurre qui una rubrica a tema (lo faccio altrove).
L’imbarbarimento sociale, che mi compiaccio non essere il solo a rilevare, è frutto di ben altro.
“L’imbarbarimento sociale, che mi compiaccio non essere il solo a rilevare, è frutto di ben altro.”
Purtroppo sono estremamente certo che i social e i commentari abbiano contribuito principalmente all’imbarbarimento della società a cui assistiamo.
Come ho già scritto lo so che la gente non lo accetta in nome di una qualche presunta libertà.
Ma è solo un’altra forma di tossicodipendenza. Sfruttata dai pubblicitari e da tutti coloro che ci vogliono speculare, rincoglionendo gran parte della popolazione terrestre.
I social e l’utilizzo che ne fa il marketing stanno imbarbarendo i rapporti sociali e sotterrando i valori del rispetto e della convivenza.
E questo traspare pienamente dai post intrisi di odio e disprezzo, anche apparentemente innocenti ma se è vero che espressi in un bar o tra amici DAL VIVO non farebbero alcun danno, quando vengono scritti sul web, reiterati ed imitati in loop da milioni di persone, fanno solo danni.
E il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Hai identificato con encomiabile (consentimi) puntualità il “ben altro”.
Non considero i Calci alla stregua di un qualunque social (che non uso, sebbene professionalmente converrebbe farlo) per i motivi che hai appunto enumerato.
Magari sono io a sbagliarmi. Ci riflettero’.
Più che altro si tratta di rendersi conto che, grazie al marketing che ci vuole tutti connessi anche quando dobbiamo fare la cacca, stiamo sostituendo in termini globali la comunicazione reale con quella virtuale. Magari convincendoci pure che siano la medesima cosa (sic!).
E siccome l’essere umano vive di socialità e non nasce con una tastiera in mano, si tratta di rendersi conto che ci hanno indottrinato a tal punto che non siamo più in grado di riconoscere l’innaturalità dei commentari web (e relativi vizi) rispetto le interazioni dal vivo e relativi benefici.
@vandal che per discutere una questione “seria” sfoggia un forzato e disarmonico vocabolario colto immagino per spiazzare l’interlocutore. “Accidenti! Questo è un guerriero: fa le arti marziali, racconta aneddoti cool non richiesti, dice le parolacce! ma nel momento in cui voglio metterlo alle strette si rivela pure un filosofo di spessore!” La poesia maschia della parolaccia e della cultura fuse nello stesso, straordinario, individuo. Molto aggressivo anche quando interpreta il fine disaminatore.
Ciao Phantom, come ho scritto sotto (per sbaglio) e praticamente subito, era un commento scherzoso fatto da febbricitante che potrebbe essere andato un po’ lungo. Di solito scrivo roba più pallosa. SI potrebbe obiettare che è un po’ imbarbarimento sociale anche forzare una discussione del genere in questa sede.
Ciao coraado, in realtà autori è un refuso, io volevo scrivere attori.
Infatti esattamente dopo il mio intervento la società è impazzita. Sob… :)
Volevo solo invitare a riflettere, non te la devi prendere.
Mi dispiace comunque che gran parte degli adulti non si rendano conto che siamo assuefatti ai commentari e non siamo più in grado di utilizzarli in modo intelligente.
Del resto, si vede anche dai loro figli.
@Myno
Fantastico!
Poche fidanzatee mi hanno capito tanto a fondo.
Si la colonna è veramente memorabile. Scorsese decide a 80 anni di svergognare i “paesani” e metterli di fronte al loro sudiciume e lo fa con un film che si prende tutto il suo tempo per illustrarci l’ordinaria gestione dell’ orrore da parte di De Niro e Di Caprio chiamati a interpretare due tra i più agghiaccianti personaggi del cinema degli ultimi lustri. Ma Di Caprio non mi ha convinto. La sua fisicità è troppo mutevole quasi come non riuscisse a inquadrare il personaggio. Il suo smascellamento va e viene, prima c’è poi non c’è in maniera del tutto innaturale. Nulla a che vedere con gli smascellamenti abilmente governati di Brando e Pitt . A Mio avviso Jesse Plemons sarebbe risultato più efficace per il ruolo di Ernest, ma i soldi ce gli ha messi Leo.
Sono uscito dalla sala stremato, ma non per la lunghezza.
Ero partito un pelo prevenuto, avevo paura di assistere al film di un vecchio che cerca di riproporre i suoi cavalli di battaglia, e invece Scorsese è un vero mostro, uno dei pochi che riesce a tenerti incollato per più di tre ore allo schermo.
Grazie Xena, condivido ogni parola.
Ohilà, che gran sorpresa, non ci speravo più!
La recensione è completa ed esauriente, qualche mia considerazione personale.
1) Di solito un film ambientato negli anni ’20 sembra un film di gente del 2023 catapultata negli anni ’20. Qui invece no. Mi riferisco soprattutto alle sparatorie e alle armi. Anche al sonoro degli spari, che sembrano quasi degli schioppi: sembrano veramente provenire dagli anni ’20.
2) Il miglior De Niro da decenni a questa parte. Fino a pochi anni fa lo davamo un po’ tutti per finito (anche per via dei film che si sceglieva), qui è al top veramente.
3) Scorsese ammira molto Ari Aster (io non tanto ma vabbè) ed in effetti qualche influenza visiva di Aster io l’ho trovata in questo film. Il che fa capire quanto Martin ami il cinema e sia ancora uno che a 81 anni evolve (normalmente è il 37enne che prende spunto dall’81enne, qui è il contrario).
4) Però a me è piaciuto di più “The Irishman” ma vabbè, son gusti!
ahah, pardon capo, volevo solo scherzare, sono febbricitante e potrei essere andato un po’ lungo
Ah sì?
Che peccato.
😞
Solo nel senso che potrei essere stato offensivo verso Xena e i ragazzi, su Scorsese confermo ogni parola – almeno lo scorsese degli ultimi 20 anni. E poi cazzo sempre cupo, triste…
Recensione meravigliosa di un capolavoro.
amen.
1) “non è la mente criminale, non è un villain affascinante [ecc.]” Bravissima, è esattamente quello che ho pensato io. Chapeau a DiCaprio per aver accettato (o proposto lui?) un protagonista così meschino. Sarebbe stato molto più facile fare l’eroe dell’FBI. Per tutto il film ci credi che lui ami sua moglie, eppure credi anche che sia in qualche modo così stupido e asservito da uccidere tutta la sua famiglia e pure lei.
2) La lunga durata evidentemente è un falso problema quando il prodotto è così bello. È come con i libri, quelli che ti piacciono davvero sono quelli che finiscono e ne vorresti ancora, indipendentemente dal numero di pagine.
3) The Irishman non me lo ricordo più tanto bene ma sicuramente mi era piaciuto meno di questo. Anche per la famigerata CGI perturbante, lo ammetto.
Film molto bello, forse anche bellissimo. Ma non lo riguarderei volentieri. Più di tre ore “costretti” a partecipare alla meschinità dei due villain, senza nessuna redenzione o sussulto, e senza catarsi, neanche minime, sono una esperienza davvero difficile da sopportare. Assistiamo alla Via Crucis di Mollie Burkhart, ma disperata, perchè stavolta il sepolcro rimane chiuso.
Stesss cosa io, non ho sentito minimamente la necessità di andarlo a rivedere.
Al contrario invece del Napoleone di Scott che andrò a rivedere alla facciaccia dei critici e dei nerd della Storia
Bellissima recensione.
Il film è un capolavoro, e Scorsese oltre gli 80 anni piscia in testa ai cosiddetti autori di mezzo secolo più giovani.
*SPOILER*
Il finale è straordinario. Quando appare il vecchio Martin che recita le ultime battute con gli occhi lucidi, avevo la pelle d’oca.
Gran pezzo.
Mi stupisce, tra le tante recensioni lette e sentite, di non essere mai incappato nel paragone che a me pare invece piu’ ovvio: Fargo.
Il film soprattutto, ma anche la serie, la seconda stagione in particolare. Eppure anche questo film di Scorsese e’ un affresco sull’idiozia del Male e su come la vita sia avvelenata a tutti i livelli dal dio denaro. Manca l’appiglio spiazzante della sceriffa stordita, ma comunque centro morale del film, anche se comunque l’unico elemento positivo della storia resta femminile. Pero’ Molly e’ troppo enigmatica e sfuggente (o forse troppo trasparente) per dar anche solo un minimo di sollievo allo spettatore. In campo vediamo solo una pletora di imbecilli quasi ignari del male che stanno spargendo; ggeniale la deviazione sul killer che diventa amico della sua vittima, ma porta comunque a compimento l’omicidio… perche’ si’. Tanto e’ vero che a ben vedere anche il personaggio mefistofelico di De Niro e’ un idiota, tolmente accecato dal voler accumulare ricchezza con ogni mezzo da non sapere quando e’ il momento di fermarsi e farla franca.
Faccio giusto il rompino segnalado che tra Gangs of New York e questo ci sono piu’ di 60 anni di differenza, essendo il primo ambientato durante la Guerra di Secessione.
Hai ragione, mi sono confusa perché il libro sulle gang da cui è tratto mi pare sia fine anni 20. Grazie per la segnalazione, sistemo!
Ma da Mean Street in poi quanti sono i film di Scorsese in cui il protagonista è o appare costantemente in balia di altre persone che gli dicono cosa fare?
Ottima recensione!
Complimenti alla recensione, veramente scritta bene. In particolare ho apprezzato la citazione a L’Uomo Che Uccise Liberty Valance.
bellissima recensione, davvero
Beh, grazie davvero. Mi hai fatto venire voglia di andare al cinema… e di riascoltare The Last Waltz.
Ti pigliavi bene a sentire quell’incipit… ma anche no
Io non ho mai capito cosa avesse di particolarmente bello quell’incipit
Sottoscrivo.
rece assolutamente perfetta.
concordo anche con le virgole.
a me – ok visto in lingua originale al cinema – ha inchiodato alla poltrona.
l’aver capito quella merda di de niro chi è (ma chi altro avrebbe potuto esserci al suo posto? chi, davvero?!) non toglie assolutamente alla “tensione malata” che aleggia e che il personaggio ci restituisce perfettamente.
molto vero che la moglie recita con quel poco che ha eppure anche il suo (folle) amore è grande.
per me capolavoro assoluto.
penso a cosa poteva essere gangs of new york con meno enfasi.
però è così: quando sei vecchio vai dritto al punto, diventi come eastwood.
che scorsese abbia 81 anni e ci resta kevin feige fa cadere i coglioni.
viva scorsese, polanski e pure ridley scott invece delle attuali generazioni di fregnoni.
Bellissima rece per un film clamoroso. Ero andato in sala più per “dovere” (è Scorsese, quanti altri suoi film potrò vedere in sala?) che per reali aspettative, e sono rimasto assolutamente rapito. Un film che va in crescendo, più diventa tremendo ciò che viene raccontato più il film diventa potente, tagliente, fino ad esplodere in quel finale magnifico, inaspettato. Ho amato il modo in cui sono raccontati i personaggi, il fatto che nemmeno gli Osage vengano raccontati come vittime al 100% (si vede che ci godono troppo a farsi servire e adulare dai bianchi e ad ostentare la loro ricchezza, e sono ingenui e boccaloni fino all’inverosimile). Ho amato il personaggio di Di Caprio nel suo essere una merda senza appello, ho amato De Niro che dopo anni di compitino tira fuori un’interpretazione stellare. Nemmeno i due vecchi alla fila davanti che commentavano il film come se fossero comodamente seduti nel salotto di casa loro sono riusciti a rovinarmi la visione.
The Irishman era un capolavoro leggendario, da top10 del decennio scorso e da top5 della filmografia di Scorsese. Lì sì il minutaggio consistente era tutto giustificato da una capacità semplicemente straordinaria di raccontare quattro decenni di vita pubblica e privata americana. In The Irishman c’erano cuore, commozione e, soprattutto, senso di colpa travolgente che venivano restituiti allo spettatore con una magnitudo emozionale a dir poco insostenibile
In Killers of The Flower Moon non c’è niente di tutto questo, mancano sussulti emotivi e narrativi, è un ripetere per tutto il tempo cose messe in faccia allo spettatore dopo 30 minuti. La recensione di Xena è stupenda, così come è molto sensato il paragone mosso da Tommaso nei commenti con Fargo. Il problema è che i personaggi di Killers of the Flower Moon sono troppo mediocri per essere tragici ma non abbastanza mediocri per essere comici. E quel finale lì vorrebbe essere una riflessione sul senso del racconto in stile Liberty Valance ma è talmente esterna a tutto quello raccontato nei 195 minuti precedenti – a differenza del capolavoro di John Ford del 1962 – che mi è parsa veramente una soluzione facile per una storia senza finale.
Bellissima recensione. Grazie.
Cavolo a me non è piaciuto, l’ ho trovato molto palloso e soprattutto poco “epico”.
Ma forse perché mi aspettavo altro?
Comunque bellissima rece!
KOTFM sta a “Gang of New York” come il sottovalutato “Rolling thunder Review” sta a “Last Waltz”, lo sguardo di Scorsese evolve, rinuncia all’epica, a 81 anni cerca nuove strade. Recensione straordinaria, che condividerei fino in fondo se Di Caprio – si cui grava principalemente la scelta del long form – mi avesse convinto di più.