
Donnie Yen è: 蝙蝠侠
Sakra è un wuxia di stampo classico con qualche twist qua e là. I wuxia, così come i twist qua e là, sono molto divertenti – sono la versione cinese di un’espansione opera lirica di Dungeons & Dragons, solo che la gente ripete le cose meno spesso e c’è un numero di pizze in faccia sensibilmente maggiore – e gli amici cinesi giusti (tipo Tsui Hark) potrebbero anche farcene qualcuno in più; ma a essere onesti l’interesse per questo film starebbe a zero se non fosse per la passione e, soprattutto, per la vanità quasi messianica che ci ha infuso dentro Donnie Yen. Per godersi il nuovo avventuroso capriccio dietro la macchina da presa del divo di Hong Kong per eccellenza – che non dirigeva da vent’anni e che comunque da regista ha sempre fatto roba mediocre (i miei prefe: l’imitazione di Bruce Lee Shanghai Affairs e la locura vampiresca The Twins Effect insieme a Dante Lam) –, per gustarselo veramente fino in fondo, questo prodotto dell’amor proprio, ci vuole molto cuore e Donnie Yen ce lo dice fin da subito, infilando a viva forza i feelings nella didascalia di apertura che spappardella il contesto storico-mitologico del racconto. Che poi, non per fare lo smargiasso, ma io due esami due di storia cinese e altrettanti di cinese classico li ho dati all’università, e però leggendo a velocità normale quel papiello dell’incipit non c’ho capito un beneamato cazzo professore, scusi può ripetere. Per Yen e per il suo team di sceneggiatori schiavi incaricati di scrivere il film, adattare su grande schermo una parte (praticamente un terzo) di quello che è considerato uno dei più celebri romanzi wuxia (Demi-Gods and Semi-Devils) del più riconosciuto maestro del genere (Jin Yong) significa semplicemente aumentare la densità delle informazioni, che siano visive o verbali.

Aumentiamo anche la densità frecce catturate a mani nude
Ma mentre noialtri annaspiamo tra Song, Yuan, Kitai e altre leggendarie ricostruzioni dell’XI secolo cinese; mentre Donnie si diverte come un vigliacco a recitare pomposamente dialoghi filosofici fuori contesto e scritti sostanzialmente in poesia (un esempio: Se ni’ mondo esistesse un po’ di bene / e ognun si considerasse suo fratello / ci sarebbe meno pensieri e meno pene / e il mondo ne sarebbe assai più bello) io sono qui per dirvi che non è mica necessario capire con la testa, amici. Servono i sentimenti. Serve intuire che certe logiche del linguaggio audiovisivo e dei rapporti causa-effetto nella scrittura sono solo freddi accessori tecnicistici delle emozioni, dell’etica e della moralità. Serve rendersi conto che non conta la destinazione ma il viaggio, che il vero tesoro sono gli amici, che Venezia è bella ma non ci vivrei. Serve il cuore. Però è un cuore che va a 210 battiti al secondo, una roba che quasi non gli ci stai dietro al sessantenne Donnie Yen. Dice: ma no dai, è solo il montaggio iniziale per farci vedere come il protagonista cresce bene e in fretta, è ovvio che debba andare ai mille all’ora. Mica vero. Il film soffre tendenzialmente sempre di quella bulimia qui, del bisogno di fare tutto e tutto insieme nel dubbio di perdersi qualcosa. E quando non è l’azione sparata a mille, comunque sono gli intensi dialoghi in cinese aulico che ti passano davanti agli occhi alla stessa velocità con cui Donnie Yen potrebbe mettermi al tappeto mentre si gratta le balle.

Donnie Yen nel suo periodo Ozu
Sakra racconta di un bambino orfano mollato in un cesto di fronte all’umile casa di una coppia di peones, che capisci essere poveri dalla faccia molto sporca. Il bimbo cresce ed è super speciale: già da piccino ha i cavi attaccati che gli fanno fare i voli in giro o che gli fanno trasportare una motta di legna pesantissima. Inoltre i genitori poveri l’hanno anche iscritto a shaolin – che nella Cina classica era il corrispettivo del judo odierno – dunque, chiaramente, non rimangono troppo basiti quando gli vedono fare i numeri da wuxia, anzi. Lo guardano con la soddisfazione di due persone di mezza età che potranno sfruttare l’esuberanza del figlio per accollargli qualsiasi fatica casalinga. In ogni caso, il bimbo fa sfoggio delle sue eroiche facoltà sovrumane solo per aiutare mamma e papà svantaggiati nella vita per via della faccia sporca, quindi bravo lui. Il piccolo cresce e diventa l’eroe Qiao Fang, leader della Beggar Gang; che sembra il nome di un gruppo di trappusi rozzanesi ma in realtà sono una ghenga di guerrieri accattoni che vanno in giro per il jianghu – il luogo mitico dove sono ambientati tutti i wuxia – a prendere a scappellotti volanti sulla nuca la gente nemica. Egli, il leader, viene detronizzato per una brutta storiaccia. Corre voce che, in realtà, Qiao Fang sia un forestiero, figlio biologico di gente acerrima rivale rispetto a quelli della gang: è un mongolo nomade Kitai invece di essere un civilizzato han fedele alla dinastia Song. Questa rivelazione avviene in una scena che è praticamente un dibattito della Repubblica galattica però nella foresta, con il 250% di stacchi di montaggio in più e almeno un auto-accoltellamento. Qiao Fang, che è uomo d’onore integerrimo e soprattutto punta a vivere senza mai provare vergogna per le sue azioni e/o parole, fa la cosa giusta e invece di litigare all’infinito con i fratelli giurati, rassegna le dimissioni e parte alla ricerca delle prove sulle proprie origini.

“Forse le mie origini sono nel Far West”
Donnie vaga per il cuore della terra di mezzo in cerca di risposte, salva una ladra anch’ella alla ricerca dei genitori perduti e i traumi condivisi fanno scattare tra loro un grande amore platonico; poi viene ingiustamente accusato due volte di omicidio, combatte dozzine e dozzine di avversari per volta mentre tutti gli eroi del jianghu si rivoltano contro di lui quando si sparge la voce che è uno zozzone Kitai, e riesce persino a far rimbalzare il sasso sull’acqua lanciandolo con un’angolatura chiaramente sbagliata: non c’è niente che quest’uomo non possa fare. Può anche bere due litri di vino cinese – durante un infinito rituale in cui tutti gli ex amici gliela giurano formalmente e con rispetto parlando – ed essere fresco come una rosa. Però l’alcol gli dà la tigna giusta per far partire una scena che omaggia, anche con qualche arto mozzato e una palla chiodata con catena, gli 88 folli di Kill Bill. Qiao Fang, soprattutto, nella vita è circondato da gente di una stupidità sconcertante, che crede alla manipolazione più idiota e misogina degli ultimi anni di cinema. Ma tale è la croce dell’eroe – borderline profeta – qual è Donnie Yen nella vita vera e nel film: essere mal compreso e osteggiato dalle folle pecorone, che verranno alfine conquistate nei loro cuori (semplici come le loro menti) per merito delle sue gesta ragguardevoli e dei suoi eroici sacrifizi. Sempre che qualcuno di loro sopravviva alla mattanza.

Amici amici, amici un cazzo.
Con tutte le buone intenzioni del mondo, Sakra nasce come un progetto appassionato per omaggiare, sia dal punto di vista letterario (vista la fonte) sia da quello cinematografico, il wuxia più classico e popolare, quello roboante e melodrammatico che ci sta bene nei feuilleton – e infatti non vi dico con che fuoco d’artificio egocentrico si chiude il film, ma la strada è spalancata per eventuali sequel. Con tutto il realismo del mondo, invece, Sakra è diventato uno specchio in cui Donnie Yen può guardarsi e sorridere compiaciuto all’idea di quanto bravo e carismatico sia, e di quanto si meritasse di interpretare un eroe che combatte senza ego (hahaha) per la giustizia, la correttezza e la rettitudine. Un eroe che, in un mondo di eroi meno potenti e virtuosi di lui che fra di loro si chiamano tutti “eroe”, dice: “Non sono un eroe, sono solo una persona ordinaria che decide di rimanere sulla giusta strada”, e che grazie alla propria ordinaria umiltà può sparare onde di energia vitale dai palmi e può avere sessant’anni dimostrandone al massimo 38. C’è sia del confucianesimo, sia del maoismo (oltre a tanto buddismo) nella morale cavalcata da Donnie Yen e da questo personaggio, che è il centro assoluto del film ed è protagonista di ogni scena e di ogni coreografia marziale: accetta gli amici che non si fidano di lui e accetta anche i nemici che si dimostrano degni del suo rispetto; ma quando scova un disfattista, uno che dall’interno del sistema rema contro tentando di mettere subdolamente zizzania, lo spacca di palmate burrascose finché non c’ha gli organi interni omogeneizzati. Grazie alla pesantezza di Donnie Yen, che vuole innalzare se stesso e il suo personaggio a vette di santità vertiginose, questa celebrazione di un genere divertente spreca un’ottima serie di scene di menare – molto meglio la vecchia scuola dei cavi rispetto agli innesti di CGI, che in ogni caso a volte funzionano – per soddisfare l’ego ipertrofico di un fenomenale interprete, artista marziale e action director, che è anche uno dei registi per caso più insipienti e francamente inutili negli ultimi 30 anni di cinema hongkonghese.
Ufficio per la censura cinese quote:
“Qui è tutto a posto, cortesemente circolare”
Toshiro Gifuni, i400calci.com
Alla poesia del Vampa sono morto.
Secondo me in occidente, per un malinteso senso di esotismo, abboniamo troppe cose a questi film, cose che non perdoneremmo mai ai “nostri” film. Non ce n’e’ uno che mi piaccia dei wuxia moderni. Troppo patinati, leccati, paraculi. Stanno ai wuxia degli anni 60 e 70 (ok, quei cinque o sei che ho visto, non sono certo un esperto) come da noi un Baricco sta a un Buzzati. Senza quella grana vintage e senza quella sincerita’ fiabesca rimane solo la tronfiaggine e tanta paccottiglia visiva.
Interrompo la lettura per esprimere solenne apprezzamento per la dotta, inarrivabile citazione del sommo poeta di Scandicci. Di questi tempi, quel “Meno pene” suona quanto mai profetico.
Ora mi dedico al resto della recensione.
hanno fatto degli esperimenti al CERN, e pare che un co-starring di Donnie e The Rock rischierebbe l’esplosione dell’universo.
(ma sì, almeno Don è un atleta eccezionale e non solo rule-of-cool + agiografia willsmithiana)
Guardo wuxia da una vita eppure ignoravo totalmente il concetto di jianghu, ho sempre pensato che quello rappresentato nei film dei Fratelli Shaw fosse una specie di medioevo romanzato ma comunque basato sulla vera storia della Cina… grazie per l’input!
ok, però non ho capito se il film t’è piaciuto.