Walter Hill ha segnato indelebilmente l’immaginario del genere action con uno stile inconfondibile: non ha bisogno di introduzioni ma di celebrazioni. In occasione del suo ultimo film, per la rubrica Le Basi, a voi il nostro speciale più ambizioso a lui dedicato.
Mississippi Adventure è un film sul blues. No, è un film che parla di appropriazione culturale. Non è vero, è un road movie. Ma cosa dici, è la classica storia di un giovane allievo e un vecchio mentore. È un romanzo di formazione. È un sacco di cose diverse, che diventano più o meno importanti a seconda di chi guarda e soprattutto dell’età di chi guarda. Eppure tutte queste cose suscitarono lo stesso interesse di una scorreggia al vento: Mississippi Adventure era un film con Ralph Macchio e un anziano non bianco, quindi era un clone di Karate Kid, quindi andò malissimo.
Anche a Walter Hill questo insuccesso credo sia importato il giusto. Il film non l’aveva scritto lui, anche se l’aveva voluto fortemente dopo averne letto lo script. Non lo girò neanche del tutto lui, che in certi contesti si sentiva un pesce fuor d’acqua. Non sto dicendo che non gliene fregasse nulla, che arrivasse sul set per fare il suo sporco lavoro da shooter e timbrare un cartellino. Sto dicendo che se Brewster’s Millions, come raccontava Terrence, era un film fatto per ingrassare il portafogli, Mississippi Adventure era un’operazione che da un lato pescava a piene mani dall’immaginario nel quale Hill stesso si sentiva a casa (l’American gothic, il frettoloso folklore di una nazione neonata, le paludi del Sud), dall’altro lo costringeva a confrontarsi con linguaggi e codici che non erano per forza i suoi – quello del film per e su adolescenti, innanzitutto, e poi quello del blues.

Il blues (sullo sfondo si intravede l’appropriazione culturale).
Sto dicendo che Mississippi Adventure è un film per il quale Walter Hill si è fatto aiutare con grande gusto, ha agito più da coordinatore e direttore d’orchestra che da autore puro, si è seduto spesso e volentieri sul metaforico sedile del passeggero lasciando guidare una serie di personaggi che si divertirono così tanto che ancora oggi fanno a gara a raccontare chi si divertì di più. Il primo è John Fusco, un italoamericano che, come ci racconta la sua bio su IMDb, “a 16 anni abbandonò la scuola per viaggiare verso Sud e fare il musicista e l’operaio”. Fusco ha raccontato di avere avuto l’idea per il film (che era solo la sua seconda sceneggiatura, e che presentò come tesi di laurea alla New York University Tisch School of the Arts) un giorno che la sua fidanzata, che faceva l’infermiera, lo chiamò dicendogli “hanno ricoverato un vecchio nero con l’armonica”.
(incidentalmente, Fusco è anche un appassionato di arti marziali, è cintura nera di Bei Shalin, pratica anche il Wing Chun e il Jeet Kune Do e ha realizzato uno dei sogni della sua vita quando gli hanno fatto scrivere Il regno proibito con Jet Li e Jackie Chan. Non c’entra nulla con il blues, ma che bel tipo il Fusco, no?)
Il secondo personaggio al quale Hill ha lasciato spesso il volante è Ry Cooder, che formalmente scrisse tutte le musiche, il che mi permette di parlare anche del terzo personaggio, Arlen Roth, ingaggiato su consiglio proprio di Cooder per fare il guitar coach di Macchio. Questo significa che Roth andava ogni giorno, quattro giorni a settimana, a casa di Ralph per insegnargli i rudimenti della chitarra blues e soprattutto per spiegargli come far finta di stare suonando qualcosa di clamoroso senza farlo sul serio (Macchio avrebbe voluto suonare davvero i suoi pezzi nel film, ma gli spiegarono che in poche settimane non sarebbe diventato abbastanza bravo). Poi lo salutava e lasciava il posto al coach di karate che lo stava preparando per Karate Kid 2.

Nel 1985, avere Ralph Macchio come protagonista era un colpo clamoroso che da solo avrebbe dovuto salvare il film. E invece.
Sul suo sito, che profuma di nostalgia e di 56k, Arlen Roth racconta la storia di un Mississippi Adventure un po’ diverso, un film nel quale lui venne coinvolto in prima persona non solo nella scrittura delle musiche – ogni tanto Hill voleva un pezzo nuovo per riempire una scena, e lui e Ry Cooder lo improvvisavano al volo – ma addirittura, occasionalmente, nella regia.
Alcuni dei momenti migliori per me sono stati quando Walter Hill si alzava di colpo e diceva “Arlen, questa scena dirigila tu. Capisci molto meglio di me quello che sta succedendo!”. E io prendevo possesso della sedia del regista, a volte piazzata lì nel mezzo di un campo di cotone del Mississippi, e cominciavo a dirigere! L’intera crew cambia completamente atteggiamento, e comincia a guardarti come un regista: è una sensazione pazzesca che non dimenticherò mai! Bellissima esperienza, e ringrazio Walter Hill per l’opportunità.
Non sappiamo quante volte sia successa questa cosa, anche se l’uso del plurale suggerisce che non sia stato un caso isolato. Resta che, finite le riprese, il povero Arlen Roth venne estromesso in maniera sottile ma sempre più decisa dalla postproduzione, e alla fine il suo nome venne rimosso dai crediti del film. A oggi è ancora abbastanza incazzato per questo piccolo dettaglio, ma ha anche ammesso più volte che Mississippi Adventure gli ha dato comunque una certa fama e una carriera fiorente, per cui dal suo punto di vista è tutto a posto. L’aneddoto conferma comunque quanto dicevo prima: Mississippi Adventure è un film di Walter Hill in name only, un progetto corale che è stato portato avanti con armonia e comunione d’intenti, un set sul quale, santo cielo!, persino le differenze di vedute più radicali vennero appianate parlandone con serenità e giungendo a compromessi. Ci pensate? SIGLA!
Non sono qui a far finta di capirci qualcosa di musica in generale, figuratevi di blues. D’altra parte farei la figura dello scemo se dicessi che non so nulla di blues, se non altro perché è alla base di sostanzialmente tutta la musica che ascolto con l’eccezione forse dei dischi ambienti di Burzum suonati con la pianola. Ed è una musica talmente onnipresente e parte integrante dell’identità statunitense (e quindi del loro cinema) che l’ho ascoltato per centinaia di ore mentre sullo schermo succedevano cose, e come faccio a negarne il fascino, la potenza, la bellezza? Il problema è la quantità, la vastità, il buco nero nel quale rischierei di imbucarmi se provassi ad approfondire un minimo, la sensazione di smarrimento di fronte a una roba con radici così profonde e ramificate.
Eugene Martone ha 17 anni e molto più tempo davanti a sé per capirci qualcosa di blues, ed è quello che ha deciso di fare della sua vita: frequenta la Juilliard, studia musica classica e sogna di abbellire Mozart con una slide guitar, per l’orrore dei suoi formalissimi insegnanti. Poi un giorno, siccome la sceneggiatura di Mississippi Adventure non ha nulla di autobiografico, Eugene viene a sapere che nell’ospedale lì vicino è stato ricoverato un vecchio nero con l’armonica, che si scoprirà poi essere nient’altri che Willie Brown, leggenda della chitarra blues nella realtà e dell’armonica blues nel film (credo perché avere un protagonista che suona l’armonica e non la chitarra non fosse considerato accettabile), che come il suo amico Robert Johnson fece un patto con il diavolo a quel famoso crocevia, vendendogli la sua anima in cambio del talento.

“Avrò fatto bene a selezionare Accetta senza leggere tutti i termini e le condizioni?”
Quella di Robert Johnson moderno Faust con la chitarra è ormai, in un Paese che l’anno prossimo festeggia i suoi appena 250 anni di storia, una leggenda nazionale, della quale però i bianchi non sono mai riusciti a impadronirsi (non perché non ci abbiano mai provato). È una faccenda di neri quanto lo è il blues, usata però in un film scritto da un bluesman bianco, diretto da un regista bianco e musicato da un notissimo chitarrista blues bianco: e quindi Mississippi Adventure è anche un film in punta di piedi, che si rende conto di disturbare, di stare sconfinando in un territorio che non è il suo, e che viene quindi approcciato con umiltà e una genuina voglia di imparare.
Eugene Martone vuole davvero diventare un bluesman! Chissenefrega se è nato a Long Island e frequenta una scuola privata per musicisti classici. Per lui quel suono è universale e vuole avere l’occasione di partecipare. Non pensa mai di essere il migliore, solo di avere delle cose da dire e di meritarsi la possibilità di dirle (cioè suonarle), anche se dovessero portargli solo fischi, insulti e verdurame. Poteva essere davvero un film sull’appropriazione culturale, Mississippi Adventure. E invece la sua aria da teen movie lo scherma da qualsiasi accusa di cattiva fede: non c’è traccia di colonialismo nel modo in cui il povero Eugene approccia il blues, nonostante quello che gli dice Willie Brown in una battuta, quella sì, inventata sul momento da Walter Hill e suggerita a Joe Seneca.
È con questa battuta che si apre e si risolve la questione. Eugene è un entusiasta che vuole imparare, e l’esuberanza dei diciassette anni gli fa perdonare anche il fatto che sia convinto che basti vivere sulla strada un paio di settimane per diventare un bluesman. Ma sa, quando lo incontriamo, di essere ancora un poser. Sa di avere le conoscenze (chiunque può ascoltare migliaia di dischi e provare a copiarli) ma non l’esperienza, i chilometri, la vita. Mississippi Adventure è un film che maneggia una materia talmente scomoda in potenza che poteva funzionare solo con un adolescente come protagonista, con tutto quello che questa cosa comporta in termini di quello che normalmente ci si aspetta da un film di Walter Hill.
D’altronde, in questa e in altre interviste, Hill ha ripetuto più volte Quella Frase Lì: che Mississippi Adventure è prima di tutto la storia di due personaggi e del loro rapporto, e tutto il resto viene dopo. E in effetti sì, il blues, la sofferenza, la vita sulla strada: alla fine stiamo comunque parlando di un film su un giovane entusiasta e un mentore burbero che vivono esperienze formative che li aiuteranno a capirsi meglio e infine a volersi bene. È quella roba lì. In questo vaghissimo senso posso capire chi da lontano ci vide solo una rimasticatura di Karate Kid e decise di aspettare direttamente il suo sequel. Non è un film originale o che riscrive in qualche modo rivoluzionario e stuzzicante i canoni del romanzo di formazione on the road.
Ma d’altra parte chi non capisce nulla di blues dice che il blues gli sembra tutto uguale, e se Mississippi Adventure fosse un pezzo blues (e per certi versi lo è) sarebbe un gran pezzo blues anche se assomiglia a tanti altri pezzi blues. È girato quasi tutto in location, e questo da solo fa tre quarti dell’atmosfera che serve. Non è un musical come lo era Strade di fuoco, ma è un film sulla musica e sul suonare la musica nel quale ogni movimento è accompagnato da una chitarra o da un’armonica o da una combinazione di vari strumenti anche nota come musica; e quindi rallenta, accelera, sale e scende ma non si ferma mai, è una canzone che ha i suoi momenti migliori piazzati sempre e comunque nel posto giusto.
Riesce persino a impastare di blues e sabbia il pericolosissimo Personaggio Femminile, che in un film del genere, soprattutto se scritto con ispirazione autobiografica, corre sempre il rischio di essere presentata come una donna angelo o qualche altra forma di caricatura, e quindi stonare nell’atmosfera generale. Jami Gertz invece è selvatica e arruffata (ben più di Ralph Macchio, peraltro), una meteora che segue un suo percorso parallelo fatto di autostop, piccole rapine e abusi sessuali e che incrocia la strada di Eugene e Willie quanto basta per lasciare un segno e insegnare qualcosa (a entrambi, addirittura), ma che abbandona la scena per inseguire la propria storia invece di diventare un accessorio in quella dei due bluesmen.

Jami Gertz è Frances. Di spalle si intravede un giovane Indiana Jones.
E l’azione? È un film di Walter Hill, quindi l’azione ci deve essere, giusto? O per la seconda settimana di fila stiamo parlando di un film senza azione? Be’, l’azione si manifesta sotto forma di musica, e la cosa che assomiglia di più a una scena di un classico di Walter Hill è probabilmente il duello finale tra Eugene e Steve Vai che interpreta il cavallo di razza di Satana, che è un duello da western con le pistole all’alba nel quale le armi da fuoco sono sostituite dallo SHREDDING SELVAGGIO. E, ehm, ecco, io lo so che è la scena più famosa del film e a livello di coreografie non ha nulla da invidiare alle più intricate sequenze action dei più grandi maestri del genere. Però non posso non essere almeno in parte con, ancora una volta, Arlen Roth:
Dopo esserci divertiti un botto in Mississippi tornammo a L.A. e continuammo a girare su dei set costruiti per mantenere la continuità con le scene che avevamo girato in location. Tra queste c’era il finale con Steve Vai, riguardo al quale ci furono delle controversie. Ero stato assunto come consulente musicale per il film, ed ero del tutto contrario a Vai. Avevamo già registrato una versione del duello finale, che era molto più fedele allo script ed era uno scontro tra me e Ry Cooder. Immaginate quanto suonava bene! Il film parlava di blues, non di heavy metal, ed ero infuriato con i produttori e il regista che si stavano arrendendo a queste assurdità da band hair metal di metà anni Ottanta. “Ma Arlen, è effettivamente il 1985” mi dicevano. “Esatto, e in questo modo stai datando questo film una volta per tutte, mentre invece dovrebbe essere senza tempo”.
Cioè, dopo tutto il blues e l’atmosfera e il groove e il dolore che accompagnano tutto Mississippi Adventure, tutta la tensione accumulata si risolve così:
Ha una botta notevole? Sì. È una scena tecnicamente impressionante? Sì. Steve Vai fa piripiri veramente molto veloce? Certo, ci si è comprato la villa con il suo piripiri. È la cosa migliore e più adatta da piazzare in coda a un film come questo? Non ne sono convinto. Ma sono dettagli: la gente lo ama, perché ovviamente, com’è giusto e auspicabile, Mississippi Adventure negli anni è stato rivalutato ed è pare molto amato soprattutto tra gli appassionati di blues (vorrei sapere qual è la percentuale di bianchi in questo gruppo, ma insomma). Walter Hill ha detto più volte che non si meritava tutto questo insuccesso e questa indifferenza. È un clamoroso feel good movie, che parla della passione totalizzante per una roba bellissima come il blues e passa un’ora e quaranta a dimostrarti perché.
È, in poche parole, un Walter Hill per gente di sedici anni, e per gente vecchia che si ricorda con affetto i propri sedici anni. Non è per forza la prima cosa a cui penso quando penso a Walter Hill, ma ancora oggi nel 2023 potrebbe funzionare alla grande come prima esposizione al suo cinema. È come con il blues: da qualche parte bisogna pure partire, e partire da Mississippi Adventure per scoprire Walter Hill non è la peggiore delle idee. Fidatevi: io ho cominciato proprio così.
Pentagramma quote
“Tu-tudu-tudu-tudu-tudu-tududududu”
(Il blues, musica)
Concordo su tutto. Aggiungerei che il finale a suo tempo mi sgonfiò notevolmente, proprio perché entrava incomprensibilmente in campo la chitarra heavy, ma ora mi sembra che fosse purtroppo l’unico modo per concludere il film. Essendo un teen movie era richiesto uno showdown finale, ed essendo la chitarra l’arma di elezione del film l’unico modo per fare un duello con le chitarre è sulla velocità di esecuzione, e quindi via con Vai! Per me fu come mangiare un pranzo buonissimo dove però l’ultima portata è un piatto di sofficini freddi. Peccato, fin lì era stato come un sogno bagnato, Ry Cooder e Walter Hill che raccontano una storia sul blues ambientata davvero nei luoghi giusti!
E comunque: Primo alla chiave! Primo all’egg! (cit.)
Quando l’avevo visto non sapevo fosse di Hill, comunque film godibile e ottima recensione, grazie!
Due cose:
1) La prima volta che ho visto questo film ero molto giovane e molto stupido, non capivo un cazzo di musica e di blues in particolare ed ho pensato anch’io “vabbè, è Karate Kid con le chitarre”, lo ammetto
2) Riguardo la frase “…è pare molto amato soprattutto tra gli appassionati di blues (vorrei sapere qual è la percentuale di bianchi in questo gruppo, ma insomma)”, credo che al momento attuale tra gli appassionati di blues (sia negli USA che nel mondo) la percentuale di bianchi sia tipo il 95%. Ai neri del blues non frega più niente credo almeno dall’epoca dei Blues Brothers.
Se ricordo bene Steve Vai suonò anche la parte di Ralph Maccho. In pratica nel film ha perso contro se stesso.
fun fact: Vai-Macchio vince contro Vai-Vai solo grazie all’uso (non mostrato, non documentato e decisamente non regolamentare) di un harmonizer Eventide per raggiungere quell’ultima nota.
#vergonia #non-cielo-dikono
Visto e poi rivisto.
Ai tempi non mi disse nulla, perche’ e’ un film di avventura e non una commedia demenziale e fracassona come il film di Landis.
Parla di blues, e infatti come il genere di cui tratta si dilata, si allunga, si prende i suoi tempi e le sue pause. E in certi punti puo’ risultare persino palloso.
Come lo scorrere del Mississippi. Come i torrenti della provincia.
Bello, eh, specie da pischelli.
Ma dopo un po’ sai che due palle, eh. Pure da ragazzini.
Va visto? Sicuro. Perche’ lo apprezzi col tempo.
Ho citato i Blues Brothers come hanno fatto altri. E abbiamo fatto bene. Tra un attimo ci arrivo.
Forse i legittimi proprietari non ci tengono piu’ di tanto al blues, specie le generazioni piu’ giovani, perche’ ricorda un passato che in fin dei conti non ci tengono a ricordare.
Si identificano molto di piu’ nel rap e nell’Hip – Hop, in quanto movimento musicale piu’ autoctono.
Per loro esprime rabbia, mentre il blues dignitosa rassegnazione.
“Oh, ma ti ricordi quando stavamo sotto ai bianchi e per vendicarsi facevamo pezzi bellissimi?”
In effetti…anche se non e’ che sia cambiato poi tanto, in termini di considerazione.
Certo, non siamo piu’ allo schiavismo. Ma…ce n’e’, ancora.
Ralph Macchio fa un po’ la fine di Michael J. Fox in” Vittime di guerra” di De Palma.
Non che non mi sia piaciuto, per carita’. E lui ci prova, a fare qualcosa che non sia Karate Kid.
Ci riprovera’, anche con “Mio cugino Vincenzo”, tempo dopo.
Il problema e’ che la gente non ce lo vede.
Non lo vede se non come Danny Lorusso. Proprio come non vedevano Fox se non come Marty.
O Linda Blair come Regan.
Dicevamo dei fratelli Blues. La parte finale (il duello) l’hanno letteralmente scopiazzata per il disastroso seguito. E pure male, tra l’altro.
E’ un caso che ci sia Joe Morton pure lì?
ecco, non sono un esperto ma dal poco che so di hiphop ammerigano alcuno hanno ancora ben chiaro e sono, non poco, orgogliosi delle loro radici. certo è un passato divertente da raccontare ma fa parte del loro passato e chi fa “conscious” rap direi che ha ben chiara l’importanza di conoscere le propie radici.
che poi non sono solo radici sono anche frutti perchè non a caso un tot di gente che ascoltavo che faceva rap nella golden age in usa adesso canta soul, gospel o comunque musica che con il blues ha un rapporto diretto…
Questa poi! non avrei mai detto fosse di Walter Hill! :O
io lo avevo visto perchè il chitarrista del nostro gruppo ci obbligó praticamente a guardarlo stile cura ludovico, meh, non mi è mai piaciuto gran che salvo solo la scena, che capisco il senso della rece, cassata della sfida con vai. :P
Mi mancava karate kid con la chitarra :-)
Devo dire che vedendo la scena finale non è che mi venga sta gran voglia di vederlo però… Macchio è imbarazzante e direi che risulta più verosimile quando fa il calcio della gru che quando fa finta di suonare la chitarra…
Mississippi Adventure non si tocca! Da ragazzino chitarrista era, tipo, il mio film preferito. Col mio migliore amico (chitarrista pure lui) ce lo vedevamo a rota. Del fatto – vero – che Vai c’entra come i cavoli a merenda non ce ne fregava nulla, anzi lo trovavamo perfetto, e lo sai perché? Proprio perché era il più tamarro degli shredder. Perché l’intero film era, voleva essere, profondamente soulful e quello sfoggio di freddezza tecnica era il nemico ideale per noi che nella musica bluz ci mettevamo er core. Era, letteralmente, il Diavolo quel modo di suonare. E un regazzino sbarbato come noi lo sconfiggeva! Il modo, la camminata che fa quando lascia il palco sconfitto… Lascia fa’.