Ero carichissimo per Ganapath. Il nuovo film di Tiger Shroff!
Non vedevo l’ora di parlarvene, già dall’arroganza del progetto: se a Hollywood ormai non ti permettono quasi più di spendere un budget a otto cifre se non sei l’adattamento o il sequel di un brand conosciuto, ecco che in India, grazie allo star power di uno dei loro divi più interessanti, possono buttare i soldi delle grandi occasioni su una storia originale che mischia sci-fi, post-apocalisse, supereroi e arti marziali.
Poi è successo che in realtà il film era abbastanza brutto e ha pure floppato male. Spiace dirlo per una roba che per tutta la prima parte è world building e mitologia dei personaggi purtroppo piuttosto fiacca, ma che nella seconda parte è letteralmente tutto un torneo di arti marziali coreografato da Tim Man e impreziosito da Brahim Chab, entrambi pura scuola Undisputed. Immaginate uno strano misto fra Iron Man, Mad Max e Lionheart che, per gli standard bollywoodiani, costa come un Marvel. E spiace anche dire che il punto debole sembra essere proprio Tiger Shroff e il suo non trovare un equilibrio sufficientemente carismatico – ma anche solo simpatico – tra il ricco viziato che deve scoprire il suo lato umano alla Tony Stark, e l’esigenza di essere sempre e costantemente fighissimo in ogni singola inquadratura che a confronto Troppo belli con Costantino pare un Rossellini del ’46.
Comunque.
Per me, Ganapath è soprattutto la scusa per puntare un faro su Jess “The Joker” Liaudin, che ho avuto l’onore di intervistare direttamente dal palco del Fighting Spirit Film Festival, e che lì interpreta il primo avversario serio di Tiger Shroff – quello che, fregandogli la morosa, scatena in lui l’improvvisa conversione morale che lo porterà a imparare seriamente le arti marziali.
Jess ha avuto una vita avventurosa che l’ha portato da un’infanzia difficile al diventare una star UFC/MMA, per poi passare al cinema.
L’ho personalmente visto per la prima volta sullo schermo in Night Fare, chicca francese post-Drive proiettata al Frightfest nel 2015 in cui lui interpretava una specie di moderno Terminator, ma il suo curriculum include di tutto: Jess ha recitato per gente come Olivier Assayas, Luc Besson e Wim Wenders, si è menato con eroi del calibro di Donnie Yen (Big Brother) e Scott Adkins (One Shot), e ha offerto i suoi servizi anche a Fast & Furious, Bond, Batman e gli Expendables.
Il formato dell’intervista è un po’ insolito: la prima parte è la trascrizione del Q&A effettuato dal vivo durante il Fighting Spirit, che seguiva una proiezione del bel cortometraggio Cauliflower e degli showreel di Jess (acting e action); la seconda parte è stata effettuata via Zoom.
Jess è spettacolare: divertente, sincero, pieno zeppo di storie da raccontare. Ma prima di farvi leggere l’intervista, vi faccio vedere Cauliflower:
Cauliflower è un progetto molto interessante su un argomento effettivamente controverso. Come sei stato coinvolto?
Il regista mi ha contattato più volte nel corso degli ultimi anni. Occasionalmente faccio anche corti, ma sono piuttosto esigente al riguardo e scelgo accuratamente le cose che voglio fare perché ho avuto molte delusioni all’inizio della mia carriera. Ora ho più tempo ed energia da dedicare a queste cose. Quello che mi ha interessato del progetto è stato ovviamente delle orecchie a cavolfiore, poter parlare di combattimenti, wrestling, grappling, arti marziali in un modo diverso, in modo artistico. È stato un esercizio diverso dal solito fare la narrazione, che ovviamente per quanto mi riguardava era una cosa completamente nuova. Inizialmente doveva essere ancora più corto, sotto i 3 minuti, che secondo me era un po’ più d’impatto, ma, finora, la cosa è stata accolta molto bene anche dalla comunità delle MMA e del jiu-jitsu. Addirittura Royce Gracie si è messo in contatto con il regista e ha detto di aver molto apprezzato il corto, e noi non glielo avevamo nemmeno mandato. Non puoi fare meglio di così come risultato, quindi ne siamo molto contenti.
Torniamo all’inizio. Come ti sei avvicinato alle arti marziali, e come ti sei appassionato?
Beh, ho cinquant’anni, e negli anni ’70, quando eri ragazzino, avevi solo due opzioni – in Francia, almeno. O giocavi a calcio, o facevi judo. Il judo è molto popolare in Francia, abbiamo una grande Nazionale. Ho provato il calcio, e mi limito a dire che non ha esattamente funzionato. Per cui ho provato judo, ma non è andata molto meglio perché – non mi dilungherò troppo su questo – mio padre era molto violento. Mi picchiava proprio. Di conseguenza ero molto passivo. E ovviamente, quando fai judo, devi afferrare il tuo avversario, devi provare a lanciarlo quando esegui il randori, e io non riuscivo a farlo. Non sapevo come reagire. Per cui l’istruttore disse a mia madre che ero inutile. Non reagivo. Imparavo le tecniche, ma quando si trattava di fare sparring ero terribile. Poi ho fatto un po’ di karate, che era meglio perché non facevamo tanto sparring. Ma sono davvero uscito dal mio guscio soltanto quando avevo 14 anni, quando alla fine io e mia madre siamo scappati da mio padre e per un po’ abbiamo vissuto per strada, dormendo in chiesa. Ho scoperto la thai boxing nel 1984 – la thai boxing era molto popolare nell’area in cui eravamo, che era un quartiere duro e molto povero. E, poiché non avevo la pressione di mio padre, uscii dal mio guscio e mi appassionai seriamente alle arti marziali. Ed è lì che è iniziato davvero il mio viaggio. E a 16 anni ho iniziato a gareggiare.
Ho visto il documentario sulla tua storia e so che hai finito per studiare molti stili diversi. Cosa ti ha portato a farlo, e com’è stato il percorso che ti ha portato fino all’UFC?
Ovviamente è stata colpa dei film di arti marziali. Quando avevo 14 anni, ho trovato lavoro in un negozio di videonoleggio – sono sicuro che hai già sentito una storia simile, tipo da Quentin Tarantino. Per cui guardavo film tutto il tempo. Anche questo mi ha aiutato a uscire dal guscio, e a scoprire letteralmente il mondo. E ovviamente ero molto appassionato di film di arti marziali. Per cui mi sono appassionato a stili diversi: Bruce Lee e il Jeet Kune Do, ecc… Quindi inizialmente ho fatto thai boxe, ma siccome guardavo molti film, andavo ad allenarmi e provavo quei calci che vedevo nei film, che erano quasi sempre Tae Kwon Do. Provavo i calci rotanti, i calci a 360… Il mio istruttore era molto tradizionale, e quando mi vedeva fare roba del genere mi diceva “che è quella merda? Se è questo che ti piace, vai a fare kickboxing”. E a quei tempi kickboxing e muay thai erano in competizione l’uno contro l’altro. Le MMA non esistevano ancora. Quindi alla fine ho fatto kickboxing, e più precisamente kickboxing giapponese, che era molto più aperta, potevi includere molti più calci, tecniche e cose del genere. E il motivo per cui ho iniziato a gareggiare è perché volevo mettere alla prova le mie capacità. Volevo imparare cose nuove e andare a combattere per vedere se funzionava. Non ho mai voluto diventare un lottatore professionista, cosa che è avvenuta letteralmente per caso. Ho fatto un combattimento, poi un altro… ma in realtà la mia passione era unicamente fare film. Ma sai com’è. Se non vieni da quella classe sociale, non capisci. Quindi continuavo a combattere. E alla fine, sai cosa? Combattere è un po’ come il teatro. Quelli vanno sul palco, io vado sul ring, tiro qualche calcio spettacolare e la gente applaude e si diverte per quello che faccio. Quindi alla fine ho continuato a combattere per quel semplice motivo. Ma il mio primo obiettivo nel combattere non era vincere: era intrattenere il pubblico. Il che mi ha giocato a favore per parecchio tempo, perché ai promoters piaceva. Dicevano “Hey, ogni volta che c’è questo ragazzo la folla impazzisce”. Ma a lungo termine, ho finito per non prendere questo sport davvero sul serio. Avevo molto talento, me la sono cavata senza allenarmi molto e senza essere davvero competitivo a lungo termine. Ma c’è stato un momento in cui avrei dovuto diventare un lottatore professionista, allenarmi davvero duramente per vincere, e a quel punto la mia carriera ha iniziato a essere un po’ dubbia. E allora mi sono datto, sai cosa? Fanculo, proviamoci. Proviamo ad allenarci seriamente. Proviamo ad allenarci molto duramente e a battere un po’ di gente, e bene o male è stato questo.
Chi erano i tuoi attori preferiti, quelli che ti ispiravano quando lavoravi al videonoleggio e sognavi di diventare tu stesso un attore?
Beh, ce ne sono tre. Uno, ne sono sicuro, non stupirà nessuno: è Bruce Lee. Uno che la maggior parte di voi probabilmente non sa chi sia è un attore francese chiamato Jean-Paul Belmondo [vi ricordo che eravamo nel contesto di un festival di arti marziali, ndr]. Inizialmente era un attore drammatico, era in All’ultimo respiro, che forse qualcuno di voi ha visto. Poi ha fatto molti film d’azione, e si faceva i suoi stunt da solo, che era una cosa molto nuova negli anni ’60 e ’70. E ovviamente Gary Oldman. Penso che molti attori siano stati ispirati dal buon vecchio Gary. Questi tre attori hanno avuto una grande influenza su di me.
Mi aspettavo probabilmente un altro nome… Nel senso: sei entrato nel mondo delle arti marziali quando la UFC aveva praticamente appena iniziato, ed era una cosa molto nuova. E nella tua carriera sei riuscito a vedere come si è poi passati gradualmente dalla UFC alle MMA, che è dove siamo oggi. Di solito chi viene da questo mondo cita come influenza principale Van Damme e Senza esclusione di colpi. Mi interesserebbe sapere quindi come hai attraversato questo periodo, i primi tentativi di tradurre in un vero sport ciò che Van Damme aveva fatto in un film, e come sono poi riusciti a diventare quello che sono le MMA oggi. Come hai vissuto questa esperienza?
Ricordo di aver visto la prima UFC, nel 1993. Stavo facendo un incontro di kickboxing a Houston, in Texas, il 21 novembre, e due settimane prima c’era stato il primo evento di UFC. Come raccontavo prima, ero un po’ appariscente. Sono andato a Houston, ho battuto il mio avversario con un calcio rotante, erano tutti emozionati… Quindi tutti volevano parlarmi, specie perché ero francese. Mi hanno chiesto “Hai mai sentito questa cosa chiamata UFC?”, e io “No, che cos’è?”. E loro avevano una videocassetta – per quelli di voi che sanno di cosa si tratta – e me l’hanno fatta vedere. Era tutto molto interessante, ma non ero sicuro che fosse reale. Era così nuova in quel momento e ho pensato che fosse ancora in fase primordiale, e anche il combattimento non erano quello che ci si aspetterebbe, con tutte quelle prese e così via. Ma sono tornato in Europa e ho iniziato ad allenarmi al grappling. Ho provato ad allenarmi nel judo tradizionale, nel jiu-jitsu. E quando mi sono trasferito negli Stati Uniti nel ’95, ho iniziato a gareggiare nelle MMA. A quel tempo non avevano tante promotions, per cui molti combattimenti erano a terra, in un dojo, con un praticante di capoeira, uno di kung fu e cose del genere. Ho iniziato così. E poi mi sono trasferito nel Regno Unito nel ’96, ed è lì che le MMA hanno davvero avuto inizio. E quando dico inizio, intendo due show all’anno. E poi spettacoli amatoriali che mischiavano dilettanti e professionisti. Ricordo che andavo alle gare e trovavo un praticante di kung fu, uno di kickboxing… e mi ricordo che c’erano due categorie: sotto i 90kg, e sopra i 90kg. Ricordo una cosa divertente: c’era questo gruppo di praticanti di kung fu che mi ricordavano i vecchi film degli anni ’70, erano tutti afro-inglesi con i dreadlock e indossavano tutti un’uniforme molto cinese. Erano circa in sette, ma avevano una sola conchiglia, che si prestavano a vicenda e indossavano sopra al gi, che pensavo fosse esilarante. Ma sì, quelli erano i primi giorni dell’MMA, e poi ho continuato a combattere e cose del genere. E poi, nel 2000, c’è stato un primo spettacolo professionale, il primo evento Cage Rage. Io ho combattuto nel secondo.
[a questo punto viene fatta una domanda dal pubblico]
Quando un artista marziale o un veterano di MMA entra nel mondo del cinema, gli viene quasi sempre dato il ruolo del cattivo, o dello scagnozzo. Guardando il tuo showreel sembra che tu ti diverta molto nel ruolo del cattivo, ma hai anche una vasta gamma di ruoli diversi, non solo il picchiatore. Come sei riuscito a superare quello stereotipo?
Perché nascondevo il fatto che stavo facendo MMA. Poi mi presentavo al casting e mi dicevano “Checcazzo è quella faccia???”. Ma insomma, non lo mettevo nel mio curriculum. Di solito la gente mette che ne so “grande cintura nera di arti marziali”, ma io non mettevo niente, perché volevo fare un provino come attore. Per cui ho davvero cercato di promuovere me stesso come attore. Non mi sono mai definito un attore d’azione, ho cercato di stare lontano da quella definizione. Solo più tardi ho iniziato a fare stunt. Ricordo che ero molto frustrato dalla mia carriera. All’epoca avevo fatto un film con Donnie Yen, in cui avevamo un combattimento, come attore. Ma la mia carriera come attore non stava andando da nessuna parte. Avevo ottenuto un ruolo in Maleficent 2, avevo fatto un provino, ma sono stato utilizzato come comparsa. Ma ero sul set con gli altri stuntmen, e mi dicevano “Hey Jess, come va?”, e iniziavano a usarmi per fare diverse cose, qualche stunt qua e là. E allora mi sono detto “Sai cosa? Fanculo, inizierò a fare qualche stunt ogni tanto”. E quello mi ha aperto un sacco di porte nuove. Perché quando ho iniziato a lavorare come attore il mio agente diceva “Hey, Jess sa recitare” e gli rispondevano “Sì certo, come no, l’abbiamo già sentita questa, uno stuntman che sa recitare”. Per cui se mi propongo come stuntman, almeno posso farlo. Così l’ho fatto e mi si sono aperte molte porte. In quella scena che avete visto nel mio showreel con Vincent Cassel, inizialmente non c’era dialogo. Avrei dovuto semplicemente combattere con lui. Poi Vincent Cassel si presenta sul set, mi vede e fa “il mio personaggio non menerebbe mai uno così”. Per cui ci diciamo “Ok, cosa si può fare?”. Il regista – Stephen Hopkins, Predator 2 – mi fa “hey, hai un bel look”. E finisco per avere i dialoghi di un altro attore. Quindi sai, penso che dipenda dalle tue capacità. Ne ho visti molti di lottatori MMA passare al cinema: alcuni di loro sono bravi attori, penso ad esempio a Oleg Taktarov. Ma molti di loro non lavorano realmente su questo tipo di abilità, praticamente interpretano sempre loro stessi. Non farò nomi perché non voglio essere maleducato, ma li vedi nelle interviste e poi li vedi sullo schermo, ed è la stessa cosa. Hanno una presenza naturale, perché quando combatti hai un microfono in faccia tutto il tempo, ma non capisci nemmeno se hanno davvero una passione, se gli piace davvero recitare. A me non piace guardarmi, ma mi piace recitare, e voglio essere preso sul serio. Quindi sì, ci sto ancora provando, sto lottando per cercare di non essere sempre solo un picchiatore, e ti sorprenderà la quantità di cose che rifiuto. A volte mi dicono “Hey, vogliamo che tu faccia lo scagnozzo” e io “No, non esiste”. A volte invece ti tocca, perché hai bisogno di fare soldi, per cui fai una scena di combattimento. In questo momento sto girando un film per Netflix, una commedia [Lift, ndr]. Ho una scena di combattimento, ma è un combattimento un po’ comico. Per cui mi son detto “Ok, è interessante”. Ma se vuoi che io sia l’ennesimo picchiatore… Mi ricordo quando ho fatto One Shot con Scott Adkins, lui poi mi ha contattato per lavorare a un’altra cosa con lui, penso fosse Accident Man. Ma non ero sicuro di voler fare un altro film d’azione come quello, avrei voluto fare qualcosa di diverso, per poi tornare ai film d’azione successivamente. Quindi si tratta anche di fare la scelta giusta. E a volte ti tocca rifiutare del lavoro, ed è molto difficile, soprattutto quando non piaci a nessuno e hai già 50 anni. Ma sai, devi fare quello che devi fare. Spero di aver risposto alla tua domanda.
[la seconda parte dell’intervista è stata effettuata via Zoom]
Stavi raccontando di come, da atleta, ti interessasse di più esibirti per il divertimento del pubblico che vincere. Quindi mi chiedevo se per caso hai mai preso in considerazione il wrestling, nel senso della WWE o simili.
Ci ho pensato, perché ricordo di aver guardato il wrestling professionistico per un breve periodo di tempo alla fine degli anni Novanta. Penso che fosse tipo ’98/’99 fino al 2001. All’epoca The Rock era molto famoso, e anche Stone Cold Steve Austin era molto famoso e stava iniziando a fare reality show, per cui stavano cercando gente nuova. E ci ho pensato, credo di aver inviato domanda per i primi provini. Ma sinceramente non ero molto grosso, non ero così scolpito e steroidato, e non pensavo davvero di interessare a loro. Ma è qualcosa a cui ho pensato perché ricordo di aver guardato molto più spesso la WCW, e alla WCW avevano qualche lottatore che faceva arti marziali. Inoltre, c’era anche Ken Shamrock nei paraggi. Quindi ho pensato che chissà… Ma senti, alla fine non ero neanche lontanamente abbastanza grosso. Ma è qualcosa che avrei potuto fare.
Quando hai iniziato a pensare seriamente di dedicarti alla recitazione e come sei riuscito a entrare nel mondo del cinema?
Ho sempre voluto entrare nel cinema fin da quando ero molto giovane. Come dicevo, ho lavorato in un negozio di videonoleggi quando avevo 14 anni, per cui mi sono innamorato del cinema. Inoltre praticavo molte arti marziali e i film sulle arti marziali erano molto popolari all’epoca. Quindi sai com’è, inizialmente mi sono ispirato a Van Damme, che andò a Hollywood con la sua abilità nelle arti marziali e riuscì a sfondare. Ma a quel tempo vivevo in una piccola città e non sapevo davvero come fare. Ricordo che andai a scuola e chiesi al mio insegnante come potevo entrare nel mondo del cinema. E poiché non ero molto bravo a scuola, mi disse semplicemente “Beh, puoi fare il proiezionista”. Che non era esattamente quello che stavo cercando. Quindi sì, in un certo senso per un po’ ho lasciato l’idea da parte. Mi sono trasferito negli Stati Uniti nel 1995, ma era a Houston, in Texas, e non c’era molto cinema laggiù a parte Walker Texas Ranger con Chuck Norris. E poi, quando sono tornato nel Regno Unito nel ’96, ho iniziato a lavorare un po’ come comparsa. Per un paio d’anni le cose sembravano ingranare e ho pensato che forse potevo farcela. Poi le MMA hanno preso il sopravvento, quindi mi sono concentrato sulle MMA. Quando poi mi sono ritirato dalle MMA ho pensato fosse il momento di prendere delle lezioni e dedicarmi seriamente a questa attività.
Mi pare quindi di capire che inizialmente hai fatto molte piccole parti, e poi il tuo primo ruolo importante è stato in Night Fare, giusto?
Sì. Inizialmente ricordo di aver lavorato come comparsa e di aver fatto piccole parti in cortometraggi e video pop, che è positivo perché inizi a crearti dei contatti, e molte di quelle persone alla fine magari lavoreranno in grandi film e ti contatteranno. È il modo migliore per entrare in un giro. E poi ho iniziato a dire una frase qui, una frase là, un po’ di stunts. Facevo il possibile per cercare di non farmi incastrare in un ruolo solo. Julien Seri, che è un regista ma anche un fan di arti marziali, stava tenendo d’occhio quello che stavo facendo e mi ha offerto un’opportunità. Per cui sì, il mio primo ruolo da protagonista è stato in Night Fare, in cui interpretavo il grande cattivo.
L’ho visto al Frightfest quando è uscito e poi l’ho riguardato di nuovo qualche giorno fa, ed è ancora valido. Trattandosi quindi del tuo primo ruolo importante, come ti sei preparato? Hai ricevuto qualche input particolare su come interpretare il tuo personaggio?
A quel punto della mia carriera avevo fatto parecchi cortometraggi dal budget piuttosto piccolo, la maggior parte di loro non è mai stata distribuita. Ma se non altro, questo mi aveva dato molta esperienza. E sono abbastanza contento che alcuni di quei film non siano mai stati distribuiti perché erano piuttosto terribili. Quando ho iniziato a girare Night Fare ero ancora molto grezzo e portavo molte delle mie esperienze emotive e personali nel ruolo, che col tempo non è molto salutare. Ma inizialmente avrei dovuto essere solo un’ombra. Avrei dovuto essere solo un’ombra, che in auto non si sarebbe vista bene, e fuori dall’auto neppure. Ma mentre lavoravo con Julian lui ha davvero apprezzato quello che stavo facendo, quello che stavo cercando di fare con il ruolo. Per cui, sempre di più, ha smesso di lasciarmi in ombra. E alla fine del film ha deciso che in realtà non sapevamo abbastanza di questo mio personaggio, l’autista, e che era affascinante. Quindi mi ha richiamato e abbiamo fatto quattro giorni di reshoots. Ed è da lì che arriva tutta la fine del film, quando racconto effettivamente la mia storia.
Immagino quindi che Night Fare ti abbia aperto qualche porta in più, e sei finito a lavorare per registi di un certo livello: Wim Wenders, Olivier Assayas, Luc Besson… A parte Luc Besson, gli altri due non fanno esattamente molti action, ed è insolito vedere i loro nomi nel curriculum di qualcuno che fa principalmente action. Com’è stata l’esperienza con loro?
Il fatto è che dopo aver girato Night Fare ero un po’ ingenuo. Pensavo che mi avrebbe aperto molte porte. Voglio dire, è stato il mio primo ruolo da protagonista, la mia faccia era sul poster su tutta la metropolitana di Parigi. Ho pensato “Hey, sono a posto. Ce l’ho fatta. Ho un agente a Parigi”. E poi per tre anni non ho davvero lavorato. Gli unici provini a cui mi chiamavano erano “duro numero 3” o “scagnozzo numero 4”. Non faceva alcuna differenza. Sai, nel film, non importa se interpreti il protagonista o il coprotagonista: se non ha successo, dal punto di vista critico o da quello finanziario, è come se non avessi fatto nulla. Per cui ricominciai da capo. Finii a fare un provino per Wim Wenders perché stava cercando un attore con le orecchie a cavolfiore, e lavorava con una direttrice del casting molto brava e molto importante a Parigi. Lei era molto specifica su chi voleva, e voleva trovare la persona giusta. Normalmente un direttore del casting di basso livello vuole principalmente mantenere buoni rapporti con le grandi agenzie, ma lei era diversa, voleva davvero trovare un attore che avesse realmente le orecchie a cavolfiore. Ho fatto il provino per lei, e sono piaciuto molto a Wim Wenders. E quasi tutti gli altri ruoli che ho fatto li ho saputi grazie a quella direttrice del casting perché le piaceva il modo in cui lavoro, ed è stata lei a presentarmi Olivier Assayas. Ha provato a propormi per un ruolo anche in The French Dispatch, che ovviamente non ho ottenuto – e che nessuno ha ottenuto oltre ai soliti. Ma mi chiama occasionalmente ogni 2 o 3 anni e di solito è per lavorare con qualche grande regista. Quello che vedo con Olivier Assayas e con Wim Wenders è che loro cercano carattere, cercano facce che raccontino una storia, non cercano le solite persone giovani e carine che di solito vedi su Netflix. Cercano qualcuno che quando viene inquadrato ti può già raccontare una storia senza nemmeno bisogno di dover spiegare chi sono. Hanno una certa età ormai, hanno visto molta gente diversa con molti background diversi, e sanno bene che solo perché hai il volto da duro non è detto che tu sia per forza un gangster o una persona cattiva.
Questo è effettivamente interessante. Dopodiché immagino tu abbia iniziato a costruire anche il tuo CV d’azione. E a un certo punto sei riuscito a lavorare con Donnie Yen in The Big Brother. Com’è stata l’esperienza di lavorare a Hong Kong con, fondamentalmente, uno dei migliori, se non il migliore attualmente nel settore per quanto riguarda il cinema d’azione?
Beh, è stato fantastico. L’ho fatto grazie a un direttore del casting chiamato Mike Leeder. Mike mi aveva già fatto un provino per Fearless con Jet Li. All’epoca il film avrebbe dovuto includere dodici diversi combattenti da tutto il mondo, per cui viaggiava in giro per il mondo per cercare atleti, e a un certo punto arrivò a Londra e mi vide. Ovviamente il film poi è cambiato, penso siano rimasti solo tre o quattro combattenti, ma almeno mi è stata data l’opportunità di conoscere Mike Leeder che è un direttore del casting, un attore, un produttore, un uomo di mille talenti che vive a Hong Kong. Quando stavano cercando il cast per questo film con Donnie Yen, stavano cercando un lottatore di MMA, per cui mi ha chiamato per il provino e ho ottenuto il ruolo. Avevo quasi lavorato con Donnie sul primo Ip Man all’epoca, volevano che interpretassi il pugile, ma a causa dei miei tatuaggi non si riusciva a farla funzionare. Ma questa volta ero proprio quello che stavano cercando. Così sono andato a Hong Kong: siamo arrivati dopo 12 ore di volo e poi direttamente alle prove, senza passare dall’hotel. Ci siamo messi subito all’opera, per tipo 5 o 6 ore. Alla fine della giornata conoscevo già la coreografia. E il lunedì seguente avremmo dovuto girare ma, sfortunatamente, cambiò la data di uscita di un altro film che Donnie aveva fatto in quel periodo, per cui di colpo lui era impegnato a fare promozione per quel film. Quindi per due settimane non è stato presente, e io ho dovuto aspettare circa due settimane. Alla fine abbiamo girato le nostre cose. E sì, è molto difficile lavorare a Hong Kong. Non è come in America. Non è così pericoloso come la gente fa credere, ma si aspettano sempre il meglio del meglio per ogni singola ripresa. Se devi fare un’extra ripresa diventano estremamente frustrati, ma quando ne fai una buona nessuno ti darà una pacca sulla spalla. Diranno “Ok, andiamo avanti”. Quindi devi essere pronto a questo.
Di recente eri al cinema con il quarto capitolo degli Expendables dove hai lavorato con diverse star d’azione classiche. Hai imparato qualcosa da loro?
Expend4bles è stato divertente. Ho girato una scena di combattimento con Jason Statham e Sylvester Stallone, ed è stata un po’ surreale. Sly a un certo punto si lamentava della schiena, poi ha chiesto se c’era un lottatore tra di noi e qualcuno gli ha indicato me. E così ci siamo incontrati e siamo andati al bar, dove abbiamo avuto una conversazione a tema infortuni, come si recuperano, e il fatto che lui avesse subito cinque interventi chirurgici alla schiena… Era surreale. Ricordo che da ragazzino guardavo Rocky IV in TV, e in quel momento ero proprio lì di fronte a una leggenda, con lui che mi parlava come se ci conoscessimo da sempre. È stato fantastico. Ma anche guardarlo dall’esterno, il modo in cui improvvisava qualche dialogo o lo rielaborava, o parlava con il regista della scena, cosa avrebbe funzionato e cosa non avrebbe funzionato. C’era un altro attore con lui quel giorno, non ancora del tutto formato, con pochissima esperienza nella recitazione, e si vedeva che i consigli che gli dava Sly erano molto potenti. Puoi davvero capire che quella persona ha fatto tutto, ha scritto, ha diretto, e lo puoi capire da come si comporta, da come parla… è stato davvero fantastico. E poi ho lavorato con Jason. All’epoca non ci conoscevamo, ma poi più tardi siamo stati presentati da qualcun altro e sono diventato il suo istruttore di arti marziali.
Meraviglioso. E poi c’è Ganapath, che hai girato in India, e che dev’essere stata un’altra esperienza interessante. Come ti sei trovato?
È stato fantastico. Molte persone ora sono sempre più interessate a Bollywood, o al cinema indiano nel suo insieme, perché sembra ricordare quello che vedevamo negli anni ’80 e ’90. Con un eroe molto maturo, che ti piaccia o no, e con fantastiche scene d’azione. Diversi stunt coordinators e registi della seconda unità da tutto il mondo vanno a lavorare là. Il fight coordinator di Ganapath era Tim Man, con cui ho lavorato in One Shot, quindi ci conoscevamo bene. Ci sono molti combattimenti in questo film. È molto difficile descrivere la trama, è un po’ tipo Senza esclusione di colpi misto a Mad Max in un certo senso. Un po’ surreale. La mia scena è simile a quella famosa da Rambo 3, quando lui è vicino al fiume, si mette la fascia intorno alla testa e poi entra in questa specie di fienile per combattere un avversario, con tutte le persone che gli urlano e gli sudano intorno… La scena che ho girato è molto simile a quella. O comunque me l’ha ricordata. Quindi sì, sono il cattivo. E sì, sono andato a girarlo proprio in India. Rapisco la fidanzata dell’eroe, ci meniamo un paio di volte, dopodiché c’è un grande torneo di arti marziali in cui non sono più coinvolto, ma è stato grandioso. È stato bello lavorare a una produzione bollywoodiana, è stato divertente e spero sinceramente di farne di più. Sai cosa? Là non si vergognano di fare action. Sai com’è in America, ogni volta che fanno un action sentono sempre il bisogno di avere l’attore principale che strizza l’occhio al pubblico, tipo “lo so che sto facendo della merda, ma hey, facciamolo lo stesso”. Per quanto riguarda l’India è completamente diverso, prendono tutto molto sul serio ed è divertente.
Hai qualcos’altro in arrivo?
A volte è strano perché sinceramente dimentico quanti film che ho già girato siano effettivamente usciti… Ho girato Lift con Kevin Hart, che subito mi è sembrato molto violento, ma poi sono andato a ridoppiarlo e ho notato che le scene erano state tagliate abbastanza pesantemente, cosa che sinceramente non mi sorprende. Inizialmente pensavo “hey, questa roba è davvero violenta, ho sangue su tutta la faccia, ci sono cani che vogliono farmi a pezzi… Siamo sicuri che sia Netflix? Siamo sicuri che sia un film con Kevin Hart?” Comunque, gran parte di ciò che ho visto è stato tagliato, ma è stato comunque piuttosto divertente lavorarci. Quindi mi vedrete in Lift. E poi ho fatto un’altra cosa chiamata Back in Action, con Jamie Foxx e Cameron Diaz. Dovrebbe uscire anche quello l’anno prossimo su Netflix. In questo momento sto girando una commedia francese intitolata Nice Girls, anch’essa per Netflix, che dovrebbe uscire alla fine del prossimo anno, credo. E poi qualche altra roba in mezzo…
In pratica la scena del bar di EXP4 è tratta da una storia vera
Splendida intervista.
Peccato quasi non ci siano commenti.
Ecco, sorry per il commento in ritardo.
Bellissima intervista capo Cobretti, complimenti!
Va a toccare un sacco di cose interessanti, tipo “come fa un marzialista bravo a uscire cal circolo vizioso comparsa-scagnozzo-cattivo standard?”
La parte sui diversi modi di gestire le scene di azione nelle varie nazioni è interessantissima.
Sarà una cazzata ma mi sono fatto l’idea che un bravo stuntman fa molta più esperienza e impara infinite più cose sul cinema di qualsiasi attore hollywoodiano standard che si concede un paio di volta di girare film in paesi “esotici” nella carriera
Nanni facci un bell’articolo su kgf parte 1 e 2, quello si che merita !
giusto, erano tre settimane che non lo chiedevi
Ormai sono arrivato sulle sponde di valverde col gommone nero solo per questo.