Ve lo immaginate il Presidente Biden che prende un volo RyanAir?
Mentre sbotta sul sito, non capisce le tariffe, non sa dove cliccare se non vuole noleggiare un’auto, non gli interessa l’assicurazione, ma certo che vuole il Priority Boarding (è il Presidente!), è confuso dalla mancanza della prima classe, vuole prenotare il posto in corridoio per poter andare in bagno comodamente ma la security glielo proibisce…
“Signor Presidente mi dispiace ma non può portare un secondo bagaglio a mano, sul biglietto c’è scritto uno” (Biden traffica per cercare di infilare la sua valigetta dentro al trolley, rinuncia a due camicie, a un paio di pantaloni e a un libro di Tom Clancy lasciandoli nel cestino)
All’arrivo Biden va in tilt alla macchinetta che gli legge il passaporto e si fa aiutare da un inserviente.
Ancora una possibilità (One More Shot) è innanzitutto il rarissimo film di Scott Adkins che esce in contemporanea mondiale Italia compresa, e poi un film girato in unico (ovviamente finto) piano sequenza, sequel di One Shot, che parla di un attentato al Presidente degli Stati Uniti all’aeroporto di Baltimora. Tranne che è interamente girato a London Stansted.
SIGLA!
Dove eravamo rimasti?
Non lo so, ma il sequel parte esattamente da lì: Scott Adkins si è portato Waleed Elgadi (MVP nello scorso film) in aeroporto, dove è pronto a farlo re-incontrare con la moglie e consegnarlo al pezzo grosso della CIA Tom Berenger (mega-incartapecorito, ma ancora lucido). Già questa partenza dove sono tutti ancora agitati dal finale del primo capitolo è bellissima. Figuratevi poi quando scoprono che non solo in quell’aeroporto deserto sta per atterrare il Presidente degli Stati Uniti d’America per fare un discorso (a quell’ora di notte? e dove stanno gli inservienti dell’aeroporto? dove sta la gente che vuole assistere? ho sicuramente perso qualche pezzo) ma anche che i tizi che volevano Waleed lo stanno ancora inseguendo e sono capitanati da nientemeno che Michael Jai White. La cosa intenerisce più che preoccupare: Scott e Michael, dopo Undisputed 2, sono un po’ i bizzarri Rocky e Apollo dei nostri tempi, e ogni volta che tornano insieme è gran festa.
Apro una parentesi sul titolo: One Shot è un bel titolo perché ha significati multipli. Significa “un tentativo”, “una possibilità”. Ma anche “uno sparo”. Ma anche, cinematograficamente, “una ripresa” (il piano sequenza, appunto). Quando si arriva al sequel One More Shot, trovo buffo che il titolo italiano decida di tradurre e scelga di battezzare il significato di “possibilità”, per due motivi: 1) lo fa sembrare una commedia sentimentale con George Clooney e Julia Roberts; 2) narrativamente parlando, la seconda possibilità ce l’hanno i cattivi. È una cosa negativa che esista. È la loro seconda opportunità per catturare Waleed!
A me il primo capitolo non aveva fatto impazzire.
Un action di menare e sparare in piano sequenza unico a basso budget è un’impresa da folli, e One Shot presentava un po’ tutti i limiti del caso. Tanta buona volontà, ma troppi problemi pratici da risolvere sia da un punto di vista logistico che narrativo e di linguaggio. Raggiungeva l’obiettivo minimo di arrivare in fondo senza perdere ritmo e possibilmente senso: faceva quello, poco altro.
Già che ci si avventuri in un secondo film è un segno interessante: quale pazzo furioso, con un budget talmente basso, si va a incartare in un tale incubo organizzativo sapendo tra l’altro che il suo pubblico è composto al 93% da gente che manco ci farà caso? Questa è roba che guarda tuo zio quando ha finito il ripassone Chuck Norris, mica roba che va ai festival a far concorrenza a Iñárritu… Certe missioni si affrontano puramente per la gloria. Spiegavo già tutto per filo e per segno nell’altra rece, ma ci tengo a ribadire il mio sostegno a James Nunn, regista inglese con la giusta preparazione ed evidentemente pure il fuoco dentro di chi non è qua solo per prendere assegni.
Per cui vado al dunque: questo sequel risolve diversi problemi.
Il primo sono le aspettative: ho visto l’originale, non mi aspetto che di colpo questo diventi 1917.
Il secondo è la location: c’è poco da fare, Stansted fa concettualmente ridere ma è mille volte meglio di quelle tre casette in campagna che formavano l’avamposto sperduto del capitolo precedente. L’aeroporto di Stansted è grosso e labirintico, e vuoto fa impressione. È una location della madonna, e di colpo è come assistere alle prove generali per Alfonso Cuarón’s Die Hard 2. È tutta un’altra cosa. Fa venire voglia di essere lì con James Nunn mentre progetta la geografia dell’azione, spostando buoni e cattivi, tenendo sempre i due gruppi a portata di mano per poter seguire l’uno e l’altro senza staccare col montaggio ma nemmeno costringere la cinepresa a fare troppi metri a vuoto. Nunn ne approfitta anche per mischiare sapientemente Stansted con i Tilbury Docks, probabilmente per evitare aree ristrette e magari avere qualche zona con maggior libertà logistica/scenografica, ed è l’unico, venialissimo peccato, perché altrimenti ci si sarebbe trovati con un interessante. inestimabile tour virtuale di un aeroporto a cui associamo i nostri viaggi più scomodi e felici.
Il terzo sono le idee coreografiche di ripresa: l’esperienza del primo film sembra pesare molto, il piano sequenza scorre fluido ed è raramente goffo, e ci sono anche diverse idee non male. La migliore, al di là dell’intuizione di ambientare una scazzottata in uno di quei shuttle che ti portano da un terminal all’altro, è la scena in cui Scott Adkins si prende un calcio in fazza e vola da una balconata: ovvio che lo stacco digitale nasconde il materasso, ma sul momento fa abbastanza impressione.
Onestamente: non si contano scene particolarmente memorabili neanche qui, ma ci sono una miriade di momenti produttivamente eroici.
Nunn ha imparato la lezione: evita i momenti più goffi, trova effettivamente qualche idea dinamica niente male per risolvere le scene più complesse, e nei limiti e basse pretese del genere intrattiene alla grande. Sa anche che gli conviene qua e là appoggiarsi anche a momenti unicamente drammatici per mantenere la tensione alta, e sono quelli in cui risplende il sempre intensissimo Waleed. Non aspettatevi invece particolari fuochi d’artificio nella scazzottata Adkins/White, non è il contesto per sforbiciate volanti.
Non ci si aspettano miracoli da una follia del genere, e non ce ne sono.
C’è, in compenso, un cuore gigantesco e la consapevolezza che, anche negli anfratti più infimi dei cestoni dell’autogrill, c’è chi non si accontenta di sopravvivere e lotta ancora insieme a noi.
Missione compiuta.
Vi meritate… (state attenti questa è fortissima, siete pronti? vado?)… ancora una possibilità.
Digital-quote suggerita:
“Alfonso Cuarón’s Die Hard 2”
Nanni Cobretti, i400calci.com
BONUS – in attesa dei video, a cui stiamo ancora lavorando, un inside joke per chi il weekend scorso era alla festa dei 15 anni a Santeria: James Nunn è anche il regista di Shark Bait.
Datemi subito Alfonso Cuaron’s Die Harder
Non ho visto il film ma volevo approfittare per segnalare “60 minuti” su Netflix.
Film che dura poco più del tempo del titolo (1 ora e 25, togliendo i titoli e l’introduzionesiamo lì), perché sostanzialmente è una sorta di fuga in tempo reale (o quasi) con un sacco di mazzate fatte bene, il protagonista è un lottatore di MMA che deve attraversare Berlino in un’ora (appunto) inseguito da gente brutta e cattiva.
Dategli una chance poi mi direte.
Ps. Non conosco il joke ma “shark bait” lo voglio vedere
60 minuti l’abbiamo segnato.
La gag consisteva nel fatto che abbiamo fatto un quiz, e chiesto di indovinare qual era Shark Bait fra quattro poster di film di squali praticamente uguali a cui avevamo nascosto il titolo (gli altri erano The Requin, Maneater e Shark Night 3d, per la cronaca).
Ti consiglio Desperafos uscito ora sulla piattaforma IQIYI , da 400 calci alla 2a ,spero arrivi in Italia.(Preghiamo)
OMS , l’ho trovato carino , ma senza manco un calcio volante vi sono rimasto un po’ male.
Visto l’altro giorno, avevo 0 aspettative, e mi ero talmente scordato del primo, che non mi ricordavo che questo fosse il seguito, il dubbio che fosse lo stesso regista mi è poi sorto per via del girato in (finto) piano sequenza, però alla fine signori, averne di roba così, 1he40 di Scottie nostro che mena e spara, cazzo gli si può chiedere di più?
Piccola nota di demerito per i poster e i titoli di coda ingannevoli che fanno sembrare il film un double bill Adkins/White, quando invece il secondo compare per 5 minuti, e quasi tutti alla fine, però anche così il film è più che promosso.
Vedendo la locandina avevo scambiato Tom Berenger per Michele Placido.
pitch strategy per vendere il film ai produttori:
“[aspirando da una sigaretta] Ue! lo vuoi produrre il nuovo di JAMES *cough*cough*UNN?!”
al quindicesimo tentativo gli ha detto bene.
Al film darò la giusta chance, perché Scott merita sempre. Però passavo di qui, e volevo approfittare per complimentarmi col capo per la sua apparizione competente e calcistica sul podcast di Matteo Bordone, quando ho visto il titolo di puntata ho fatto una ola solitaria , ancora auguri per i 15 anni di Calci. E peraltro ormai sbaglio sempre anche io il titolo di quel film francese….
Dire che One Shot era dimenticabile equivale a non capire un cazzo di ‘sta roba (il che non è necessariamente Il Male, ma nel contesto di un sito come questo due domande me le farei – non ce l’ho con te, Nanni: in merito sei stato esaustivo).
La sfiancante sequenza finale, culminante nello scontro col boss, era davvero ben realizzata e personalmente me la ricordo benissimo.
Ah ah!
L’ho visto ieri.
Oggi guarderò il sequel.