Oz Perkins: regista divisivo.
Anche in redazione! A Stanlio non è piaciuto Longlegs, ma a me ad esempio sì: mi è sembrato mettesse su un’atmosfera abbastanza interessante da perdonargli i difetti.
Ma pure io stesso sono divisivo su Oz Perkins: non mi era piaciuto Gretel & Hansel. E a Cicciolina invece sì! Stesso motivo: mi era sembrato in quel caso che l’estetica esasperata si fosse mangiata il film.
È proprio una questione di mischiare gli ingredienti. E io non ci azzecco proprio mai.
Per cui sapete che mi son detto?
Che questo me lo recensisco da solo così non mi sbaglio.
E sapete cos’altro ho fatto per non sbagliarmi?
Ho fatto che mi è piaciuto metà sì e metà no.
Oz Perkins: regista divisivo.
SIGLA!
Fuori da ogni dubbio, Longlegs è stato uno dei casi commerciali dell’anno: costato meno di 10 milioni, ne ha incassati 126.
Una roba senza senso se pensate che: è un prodotto indipendente; è un prodotto originale; è un prodotto che non appartiene a nessun filone particolarmente trendy se non un generico “thriller/horror”; l’unica star del cast (Nicolas Cage, che non faceva quelle cifre da 10 anni) non viene mostrata nel trailer. Era stata davvero l’insolita campagna marketing a funzionare, e di nuovo, questa cosa mi ha evidentemente mandato fuori squadra, perché io l’avevo trovata eccessivamente criptica.
The Monkey è stato pubblicizzato come l’incontro fra “la mente visionaria di Longlegs” (non me lo ricordo se lo definivano visionario nel trailer, ma il tono era quello), quella di James Wan che produce (c’è sempre il suo zampino nei film di pupazzi assassini, che facciano parte del ConjuriVerse o no) e Stephen King.
Dà per scontato che sia ovvio che, dopo il trionfo di Longlegs, Perkins abbia unito le forze con un altro nome importante dell’horror e si sia cimentato con un racconto di King: avrebbe senso. Il punto, però, è che il progetto The Monkey è casualmente finito tra le braccia di Oz Perkins quando Longlegs non era ancora uscito, godendo di precisamente zero vantaggi del suo successo in fase di realizzazione.

Quando fa così è un pacco
Il racconto La simmia di Stephen King è una cosetta breve apparsa nella raccolta Scheletri.
Buffo che venga ripescato proprio ora, in un momento storico in cui le simmie vanno talmente di moda che ai Premi Sylvester abbiamo dovuto introdurre il premio Miglior Simmia.
Oz Perkins, in scrittura, è comunque costretto a espanderne il contesto, e la sua mano è abbastanza pesante.
Oz ci racconta di due gemelli che trovano una simmia giocattolo appartenuta al padre. Dopo questo ritrovamento, i due vengono colpiti da sfiga apocalittica e si convincono che la simmia ne sia responsabile: azionarne il meccanismo provoca morte. La cosa finisce per accentuare le differenze di carattere fra i due gemelli, che distruggono il giocattolo ma finiscono anche per condurre vite separate fino a quando, decenni dopo, la simmia rispunta misteriosamente fuori.
Per Oz, questa è l’occasione per girare sostanzialmente la sua versione distorta di Final Destination in salsa black comedy.
Ecco, io non so voi, ma basandomi sulla sua precedente filmografia io non avevo la minima idea che Oz Perkins avesse il senso dell’umorismo. Sinceramente avevo zero indizi.
Eppure Oz continua a spiazzarmi: ce l’ha.
Ce l’ha e funziona.
Certo, nel suo incipit fulminante è aiutatissimo da Adam Scott che questi contesti sono il suo pane quotidiano, ma anche nel resto del film le parti macabro-comiche funzionano sia a livello di coreografia che di montaggio. Nei suoi momenti migliori, The Monkey è una tragicommedia macabra che più che anticipare rovina davvero la piazza all’imminente reboot di Final Destination, che difficilmente avrà questo strano mix di creatività, cattiveria e pure profondità.
Scene di morte (bellissime) a parte, è proprio la mitologia – che viene in buona parte da King – a spiazzare. La simmia, il giocattolo, è uno strumento il cui potere rimane sostanzialmente misterioso. Sai che quando la carichi colpirà, ma non sai quando colpirà, e non sai chi colpirà. Si può protestare che il protagonista associ troppo in fretta le tragedie che gli capitano al meccanismo del giocattolo, una parte effettivamente difficile da risolvere senza impantanarsi troppo sulle premesse, viste le coincidenze vaghe per design. Ma è il suo bello: la simmia è un avatar di morte che di suo fa poco. Non è La bambola assassina. Non diventa mai personaggio che distoglie l’attenzione dal tema: è sostanzialmente un simbolo, uno scherzo crudele, lo strumento con cui i personaggi sono costretti a fare pace con il concetto stesso di morte per sfiga apocalittica.

si ride!
Qui è dove il film però si impantana cercando di approfondire non solo il tema filosofico del film ma anche il rapporto fra i protagonisti: quello tra i gemelli distaccati, e quello tra il gemello “buono” e il figlio adolescente. È dove il film si incarta mettendo troppa carne al fuoco, e perde il ritmo.
Fatemi prima aprire una parentesi sul figlio adolescente che è un caso di mis-casting spettacolare: c’è questa scena in cui il nostro protagonista Hal conosce il nuovo partner dell’ex-moglie, ed è interpretato da Elijah “Brodo” Wood in tutti i suoi splendidi 40 anni portati da eterno adolescente. Elijah Wood gli fa tutto un discorso su come voglia ottenere l’affidamento legale di Petey, il figlio di Hal. A quel punto – e per tempistica sembra una gag – Petey entra nella stanza ed è interpretato da Colin O’Brien, che ha 16 anni ma pare il sosia del discount di Jesse Eisenberg e quindi sostanzialmente sembra più vecchio di Elijah Wood, e io mi sono cappottato dalla poltrona dal ridere. Ma questo sono io, torniamo a dove eravamo.
Il film si pianta, inizia a procedere a strappi e c’è poco da fare, e dispiace perché stava promettendo tantissimo e soprattutto testimoniando l’insospettabile flessibilità espressiva di Oz Perkins. Mi sono ritrovato a pensare a Richard Kelly. Ve lo ricordate? Sembrava un genio dopo Donnie Darko, un po’ meno genio dopo Southland Tales: quando gira The Box sembra la sua occasione per cimentarsi con una storia semplice e lineare e invece per qualche imperscrutabile motivo era riuscito a imballare di mitologia indecifrabile persino un film che parla di una scatola che se spingi un bottone diventi ricco ma muore una persona che non conosci (un po’ tipo The Monkey, in effetti, anche se la simmia di The Monkey non ti fa diventare ricco). Qui non siamo a questi livelli francamente irraggiungibili di complicazioni, ma mi sono ritrovato a pensare a Oz Perkins come qualcuno che anche quando deve fare il suo film leggero, quello rilassato, quello su commissione e “in vacanza”, ancora non riesce a tenere al guinzaglio tutte le sue suggestioni.

si ride, vi dico!
La recensione potrebbe finire qui e sarebbe onestissima.
Però ho trovato un’intervista a Oz Perkins, sul podcast Script Apart, che mi ha spiazzato di nuovo.
Perché insomma – e ora sto per dire forse l’ultima cosa che vi aspettate di sentire per un film del genere – salta fuori che The Monkey, per Oz Perkins, è autobiografico.
È letteralmente, a parole sue, il suo film più personale.
E allora dovete ricordarvi che Oz è figlio dell’indimenticato Anthony Perkins, morto improvvisamente di AIDS nel ‘92 quando Oz aveva 18 anni.
Dovete ricordarvi – o imparare adesso se non lo sapevate – che la madre di Oz era tra i passeggeri del primo volo che si schiantò nel 2001 nell’attentato al World Trade Center.
Nell’intervista Oz racconta di come quest’ultimo fatto per qualche ragione finì per allontanarlo dal fratello (Elvis, musicista) invece che riavvicinarli.
E non so cosa dire, mi dispiace tantissimo per lui, ovvio che alla luce di tutto questo il film guadagna un inaspettato punto di vista extra-profondo, però io sono il burocrate stronzo che annuisce e poi dice comunque che purtroppo funziona a metà, perché il mio mestiere è quello di dire che il film purtroppo funziona a metà. Però mi auguro che gli sia servito e che sia lui che suo fratello – con cui si è riappacificato e che gli compone le colonne sonore – vivano sereni.
Il finale del film è molto bello.
Dvd-quote:
“Ridete, ridete pure, ma là fuori c’è la morte!”
(un tizio una vita fa in un cinema di Carpi durante l’intervallo di Tre uomini e una gamba, prima di uscire dalla sala sbattendo la porta)
– Questa cos’è? Mo se l’è brutta!
– È… un tipo.
– Un tipo? UN TIPO DI SIMMIA! Il tipo più brutto d’Europa!
☝️👏👏👏
La DVD quote sembra una battuta scartata di Radiofreccia.
#storiavera
Oh ma sai che sto aneddoto me lo ricordo? Secondo me mooolto tempo fa l’hai condiviso con noi; non fa altro che rafforzare la mitologia di Carpi.
Sì, sono abbastanza sicuro di averlo già raccontato. Indimenticabile.
Ci tengo comunque a ricordare che se ne andò dall’uscita di sicurezza, da vera scena madre.
Prima di leggere il commento avevo immaginato il tizio come un giovanissimo Stefano Accorsi, un abbraccio.
Il tizio del cinema di Carpi ha ispirato gli sceneggiatori di Boris
Il tizio di Carpi era Magnotta
Il Tizio Di Carpi è poesia purissima
Che bella rece
Pensa che io ho conosciuto il fratello molto prima di Oz. Avevo basse aspettative ma nonostante la recensione a metà mi hai convinto a dargli un occhio.
Visto e complessivamente piaciuto soprattutto per il black humor che lo permea, dall’inizio alla fine. Le reazioni alle morti, a parte forse quella della madre, non sono infatti mai scomposte, e l’omelia del prete al funerale della madre sembra presa da un film degli Astron 6 o Steve Konstansky. Forse però nella messa in scena delle morti poteva spingere più sul pedale dell’assurdo, in questo Final Destination bisogna ammettere che ha fatto di meglio.
Niente recensione da parte della scimmia Gundam? Sono leggermente deluso. Leggere che per il regista questo é il suo film più personale mi lascia stranito, aveva già parlato dei motivi legati alla proprio vissuto per cui aveva scelto di virare il tono del film sul ridere, quando in realtà la sceneggiatura iniziale del film era serissima, molto più in linea con la filmografia di Perkins e immagino il motivo per cui avranno pensato a lui come regista.
+1 voglio parlare con un manager, Gundam ingiustamente ostraicizzata!
GOMBLODDOOHH!!1!
Gundam fa sapere che lei non muove un dito per una simmia finta che non fa niente a parte suonare un tamburello e portare sfiga. Dice che è un po’ come chiedere a Peter Dinklage di recensire Annabelle.
_@CARPIDIES ❤
Peccato sia rimasta fuori dalle nominations come miglior simmia di quest’anno.
Ma il.premio lo.assegnerà la simmia Gundam?
Purtroppo Fabrizio ci spiega che non poteva esserci, sennò vinceva facile.
Stavolta devo ammettere di essere rimasto deluso: non ho quasi mai riso, non ho provato paura, non mi sono affezionato a nessuno dei personaggi, la simmia è inquietante ma di suo, essendo appunto un simbolo come si dice nella rece, non fa nulla (quella di Toy Story 3 faceva più paura), e paradossalmente gli omicidi più crudeli/assurdi sono quelli di personaggi irrilevanti inseriti a mo’ di gag (pure il rastrello alla Telespalla Bob). Elijah Wood sprecato.
SPOILER:
l’immagine della Morte/cavaliere pallido è stupenda ma 1) arriva troppo tardi 2) non c’entra nulla con tutto il resto, a meno che non mi sia perso qualcosa per strada.
A proposito di “pupazzi” dell’orrore, Eccovi una sceneggiatura di Richard Matheson d’annata.
https://www.youtube.com/watch?v=nMXo_moi5x8
Paul Schrader ha scritto su Facebook che Oz Perkins è un regista molto bravo che non dovrebbe fare i film del terrore. Comunque questo è venuto meglio di Longlegs, che a me fece cagare soprattutto per colpa di Nicolas Cage.