Serve un motivo per fare una retrospettiva su William Friedkin? No. Ma noi ce l’abbiamo: il motivo è che non avevamo ancora coperto praticamente niente di suo. E quindi ora copriamo tutto. Seguiteci nel nostro nuovo, imprescindibile speciale: Le basi – William Friedkin.
«Ne uscì il film più difficile, frustrante e pericoloso che abbia mai fatto, un film che pagai a caro prezzo in termini sia di salute sia di reputazione.»
La storia del cinema è piena di casi di film che non furono capiti all’epoca dell’uscita nelle sale. Non sto parlando necessariamente di flop, ma di film generalmente ignorati, spazzati sotto il tappeto della pubblica conversazione, incompresi dalla critica prima ancora che dal pubblico e magari anche sminuiti, spernacchiati, sottovalutati. Penso a Psycho e in generale a Hitchcock, che, se oggi è considerato un genio, è perché un gruppo di cinefili francesi con la erre moscia decise di rivalutarlo. In tempi più recenti c’è stato il caso di Valerian di Luc Besson. Altri livelli, sia chiaro, ma anche qui il pregiudizio su un film troppo costoso e bizzarro per farcela, e forse l’antipatia verso il regista, ha fatto pendere l’asticella della critica verso un giudizio negativo immeritato.
Ci sono film che sono andati male al botteghino ma che da subito sono stati considerati capolavori. Altri che sono stati stroncati dalla critica e adorati dal pubblico. Più rari – e per questo forse anche più preziosi per capire il contesto sociale dell’epoca in cui sono usciti – sono quelli che fanno jackpot, venendo smontati brutalmente da critica e pubblico. Il primo a venirmi in mente è I cancelli del cielo, l’anti-western di Michael Cimino che tutti ricordano principalmente perché fece fallire uno studio e scaraventò una bella palla da demolizione contro il sistema della New Hollywood. Il secondo invece è il film di cui sono qui a parlarvi: Il salario della paura, quel cazzo di capolavoro assoluto totale di quello stronzissimo genio di William “Smetti di fare il regista perché tanto c’è già stato” Friedkin.
Ora, non ho citato I cancelli del cielo a caso. È chiaro che la memoria semplifica gli eventi per poterli raccontare e tramandare con più facilità, ma è difficile puntare il dito su un unico film quando si parla di un passaggio epocale come quello che, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, portò l’industria cinematografica americana a spostare l’attenzione dagli autori onnipotenti agli high concept, a dimenticare i Cimino e abbracciare i Lucas, gli Spielberg e il pew pew. Certo, I cancelli del cielo fu la proverbiale goccia che fece traboccare il proverbiale vaso del proverbio, ma era ovvio che un sistema basato su registi sempre più arroganti e fuori controllo, pieni di sé e incapaci ormai di compromettere la propria visione per piacere al pubblico anche quel minimo necessario per rientrare con i costi, non potesse durare.
Prima della goccia proverbiale ci sono tante altre goccioline che portano il vaso al limite, e Il salario della paura è senza dubbio stato una di queste. Uscito il 24 giugno 1977, il film incassò 9 milioni nel mondo da un budget di 22, scomparendo di lì a poco dall’esistenza. La prima volta che l’ho visto, non tanti anni fa, devo ammetterlo, sono rimasto allibito. Avete presente quando scoprite un film bellissimo di cui nessuno vi aveva mai parlato, che sembra dimenticato dalla storia in maniera totalmente inspiegabile? Non è una sensazione stupenda? Ti sembra di aver fatto una scoperta archeologica, è qualcosa di profondamente tuo che non appartiene (quasi) a nessun altro e te ne vai in giro a vantartene con gli amici come se l’avessi diretto tu. Ecco, è così che mi sono sentito dopo la visione. Davvero non riuscivo a comprendere come una roba del genere non fosse in cima a ogni possibile lista dei dieci migliori film mai fatti. Non capivo come mai avessimo dovuto attendere quarant’anni per un’edizione home video che non fosse in formato 4:3 Pan & Scan. Non mi capacitavo di come la critica dell’epoca avesse potuto dimostrarsi così incredibilmente somara e concludere all’unanimità: “È brutto”.
Poi, con gli anni, un po’ facendo questo lavoro e un po’ leggendo l’ottima autobiografia di Friedkin, Il buio e la luce (da cui viene la citazione in alto), ho capito meglio la questione. Il lavoro del critico non avviene sotto vuoto, ma è inevitabilmente influenzato da simpatie e antipatie, dagli altri colleghi, da un sacco di fattori sociali, culturali, e persino dal gossip. E, tanto per concludere questo lungo prologo e farvi capire che non sto girando a vuoto, William Friedkin, a metà anni ’70, stava sul cazzo a tutti. Umanamente, forse, quell’antipatia generale se l’era più che meritata. E lui per primo lo ha ammesso.
Come giudicarlo? A metà anni ’70, Friedkin è sulla quarantina ed è reduce da un successo enorme, L’esorcista, cosa che, ammettiamolo, avrebbe montato la testa a chiunque. Nella sua autobiografia, Friedkin lascia intendere che quel successo gli aveva contemporaneamente fatto perdere il contatto con la realtà (“Per due anni non avevo diretto nulla: facevo la spola tra New York e Los Angeles, compravo quadri e mobili antichi, mi lasciavo viziare dal successo”) e lo aveva lasciato con una sorta di ansia da prestazione o blocco creativo, nell’incertezza sul nuovo progetto a cui dedicarsi. Dopo aver scartato The Devil’s Triange, un thriller fantastico sul Triangolo delle Bermude, probabilmente perché nel frattempo era uscito Incontri ravvicinati del terzo tipo, Friedkin decise di trasformare un progettino on the side da 2,5 milioni di dollari in un’epopea ambiziosa.
«Il film divenne un’ossessione. Doveva essere il mio magnum opus, quello in cui mi giocavo la reputazione. E mi sembrava di avere fatto ogni altro mio lavoro in preparazione di questo.»
Così, dopo aver ingaggiato Walon Green, sceneggiatore de Il mucchio selvaggio, Friedkin si mette al lavoro sul film, adattamento del romanzo di Georges Arnaud Il salario della paura, da cui Georges Clouzot aveva tratto il classico Vite vendute. Non un remake, ma un nuovo adattamento del romanzo, “ancora più duro e realistico” del film di Clouzot e girato con “l’approccio documentaristico per cui ero diventato noto”.
In breve, Friedkin e Green concepiscono una sceneggiatura che entrambi reputano molto forte, e il regista inizia a presentarla agli attori che ha in mente. Parliamo di nomi grossi: Steve McQueen nel ruolo del mafioso Scanlon, Marcello Mastroianni in quello del killer Nilo e Lino Ventura nella parte del businessman parigino Victor Manzon. Attori famosi, importantissimi, fondamentali affinché un progetto così duro e disperato potesse sperare di recuperare i costi. Via via, però, uno dopo l’altro i tre gli dicono di no, per ragioni diverse ma principalmente perché la prospettiva di partire per l’Ecuador (dove Friedkin intendeva girare), e allontanarsi da casa per diversi mesi, non faceva gola a nessuno. Tutto sembra andare da subito per il verso sbagliato.
«I presagi erano chiari, ma io volli insistere. Lo studio era pieno di dubbi, e io non ero riuscito a mettere insieme il cast che volevo. Sarebbe stato saggio ritirarsi e dedicarsi a qualcosa di meno ambizioso. Ma pensavo di essere indistruttibile. E nulla mi avrebbe fermato.»
Vale la pena di ricordare che sono gli anni ’70, Apocalypse Now non è ancora uscito e Universal si fida: “Ma sì, diamo 15 milioni di dollari a un tizio in preda a manie di grandezza per girare per svariati mesi in piena giungla. Cosa mai potrà andare storto?”. A un certo punto le cose, a dire il vero, iniziano anche a scricchiolare un po’, specialmente quando Friedkin riesce finalmente a mettere insieme un cast che, per quanto solido e dignitoso (Roy Scheider, reduce da Lo squalo; Francisco Rabal, l’attore che avrebbe voluto per Il braccio violento della legge; Bruno Cremer; e Amidou, unica sua prima scelta), non è manco minimamente paragonabile a quello precedente. Universal è sul punto di cedere quando dal nulla arriva Paramount a metterci una pezza, al patto di girare il film nella Repubblica Dominicana.
Non solo le seconde (o terze, quarte, quinte) scelte in termini di cast, ma anche in termini di location. Friedkin è costretto a cedere su ogni punto, ma tutto sommato è un prezzo ragionevole da pagare per poter fare un po’ il cazzo che ti pare con tutto il resto. Perché, a differenza di quanto accadrebbe oggi, Universal e Paramount in fondo lesinano solo un po’ sugli aspetti tecnici (e nemmeno fino in fondo: le porzioni ambientate a Gerusalemme e Parigi sono effettivamente girate in loco), ma non mettono bocca nelle questioni creative: Friedkin si sceglie la sua squadra, gira esattamente quello che ha scritto e monta il film senza interferenze, asciugando ancora di più i dialoghi e trasformandolo in qualcosa di veramente nichilista e feroce. Qualcosa che, con Steve McQueen e Marcello Mastroianni in cartellone, forse avrebbe recuperato i soldi spesi. Così era una ricetta per il disastro.
Friedkin se la sente talmente calda da scegliere come titolo Sorcerer, allo stesso tempo maldestro tentativo di cavalcare l’onda lunga de L’esorcista con un titolo vagamente esoterico, e testimonianza definitiva della sua incapacità di leggere la stanza.
Reduce dai problemi di sicurezza sul set de Il braccio violento della legge, oltretutto, Friedkin sembra non aver imparato nulla. Gli attori eseguono spesso gli stunt da soli, al punto che Roy Scheider ha definito le lezioni di guida di camion “prove per restare vivi”. Metà della troupe finisce a varie riprese in ospedale, molti sono costretti a lasciare la produzione a causa di infortuni, avvelenamenti da cibo o malaria, che colpisce lo stesso regista.
Ma alla fine William Friedkin ce la fa. È incredibile, a pensarci bene: di solito, quando leggi di produzioni così tempestate di casini, il film che ne esce riflette quei problemi. Le eccezioni sono rarissime, tra cui il già citato Apocalypse Now e questo. Prova del fatto che, per quanto totalmente impazzito, Friedkin aveva un’idea talmente precisa nella sua testa che niente e nessuno, dai problemi di casting alle piaghe bibliche, avrebbe mai potuto far deragliare IL FILM. Tutto il resto è superfluo, sono dettagli, se al cuore della faccenda c’è un’idea forte, una visione così cristallina e il genio di un uomo che respirava cinema.
Stilisticamente e narrativamente, Il salario della paura è genio puro, incontaminato. È l’apoteosi dello “show, don’t tell”: non c’è una parola fuori posto, niente che sia raccontato a parole se può farlo l’immagine. Un capolavoro asciuttissimo, rigoroso, persino sperimentale per come elimina tutto il grasso in favore di una narrazione snella, scattante e chirurgica, puntellata dalla tesissima colonna sonora elettronica dei Tangerine Dream, che ricorda il sound su cui John Carpenter avrebbe costruito un’intera carriera. Friedkin sa quando essere introspettivo e concentrarsi su gesti e sguardi, e quando invece alzare il volume con sequenze spettacolari capaci di togliere il fiato. Per dire, nel film c’è una delle più goduriose esplosioni della storia del cinema, preceduta da una sequenza che MacGuyver puppa tanto di fava.
Piccola digressione obbligata: la scena in questione, quella in cui c’è da far saltare in aria un tronco che blocca la strada, fu girata con l’aiuto di tale Marvin la Torcia, un rappresentante di prodotti di bellezza del Queens che arrotondava bruciando negozi per la mafia, e lo faceva utilizzando gli stessi prodotti che vendeva. Insoddisfatto dai tentativi andati a vuoto di far esplodere il tronco, Friedkin fece arrivare Marvin – consigliatogli da certi suoi contatti nell’ambiente malavitoso – dal Queens alla Repubblica Dominicana, dove l’ometto, che aveva con sé due valigie piene di prodotti di bellezza infiammabili, eseguì il lavoro al primo colpo. Una storia che fa il paio con quella dell’eroina vera sul set di The French Connection ed è utile a capire quanto Friedkin fosse uno pratico e quanto in là fosse disposto a spingersi pur di imprimere sulla pellicola esattamente quello che aveva in testa. Spoiler: fino in fondo.
La scena dell’attraversamento del ponte, girata in Messico perché il fiume in Repubblica Dominicana dove era stata preparata si era seccato all’improvviso, è invece il testamento della caparbietà di una visione e del mix di incoscienza e hybris fuori controllo di quegli anni. E a vederla, la scena, te ne rendi conto: il ponte sembra pericolante ma era in realtà fissato con un meccanismo idraulico che gli permetteva di oscillare in relativa sicurezza. I camion erano fissati alla struttura, gli stuntman dotati di galleggianti. La pioggia è finta. Eppure la fatica, la sofferenza degli attori e la sensazione che da un minuto all’altro tutto avrebbe potuto andare a puttane nel peggiore dei modi sono sullo schermo, sono tangibili e reali. Per realizzare la sequenza, che dura 12 minuti, ci vollero diversi mesi e tre milioni di dollari. Una follia anche per gli standard dell’epoca. William Friedkin era “diventato Fitzcarraldo, l’uomo che costruì un teatro dell’opera nella giungla brasiliana”. Prima ancora di Werner Herzog, l’uomo che, per girare Fitzcarraldo, avrebbe fatto trasportare una nave da 320 tonnellate su e giù per una collina.
«Mi sembrava una metafora di rilevanza globale: o si trovava un modo di lavorare insieme, o si esplodeva.»
L’unica ragione per cui tutto questo non si è trasformato in un completo disastro – almeno dal punto di vista creativo, quello commerciale è un altro discorso – è, come dicevo, il fatto che alla base di tutto ci fosse un’idea molto chiara di cosa dovesse essere Sorcerer: un film sul destino. Quella era l’idea centrale da cui poi sarebbe partito tutto l’intreccio. Che, per il resto, resta piuttosto fedele a quello generale di Vite vendute, con la differenza che nel film di Clouzot si parla tanto, come era tipico del cinema anni ’50. Friedkin sfoltisce tutto ed è come se mantenesse solo lo scheletro della narrazione originale, i punti cardine che sbucano qua e là – la scena del ponte che rimanda a quella, tesissima, della piattaforma, il finale beffardo con il protagonista che finisce male dopo la conclusione del lavoro – preferendo per il resto “mostrare senza dire” (lo so, sto insistendo molto su questo punto, ma è davvero la cosa che Friedkin ha capito più di molti altri sul cinema e sul cinema d’azione).
Comunque: il destino, dicevamo. Il fato che controlla le nostre vite e ci manovra come pupazzi senza possibilità di sfuggirgli. Il fato che “per quanto tu possa lottare, finisce che salti in aria”. È una metafora talmente diretta e on the nose che, in mano a chiunque altro, sarebbe potuta risultare grossolana e banale. Ma che qui, dove è rappresentata letteralmente da candelotti di dinamite instabile e da una tensione sempre sul punto di deflagrare, risulta invece perfetta.
Non è un caso che il film si intitoli Sorcerer: ok, sì, un po’ è colpa dell’arroganza fuori scala di Friedkin, che si credeva il re del mondo e pensava che anche se avesse intitolato il film “Rompipalle” avrebbe fatto successo (storia vera). Ma un po’ invece è una bella idea: Sorcerer, o meglio “Sorcier”, alla francese, è il nome di uno dei due camion che trasportano la dinamite, quello guidato da Bruno Cremer e Amidou. Sorcerer come il mago malvagio che rappresenta proprio il fato. Il colpo di genio è far sì che sia proprio Sorcier, tra i due camion, a saltare in aria per primo, per sovvertire le nostre aspettative e ammantare il tutto di ulteriore pessimismo cosmico (non c’è speranza per nessuno, nemmeno per il titolare del film). L’altro camion si chiama Lazaro, nomen omen, ma non è che al personaggio di Roy Scheider vada tanto meglio. Sì, porta a termine la missione, ma per lui non c’è né redenzione né salvezza.
Anzi, nel durissimo finale è proprio il destino a bussargli alla porta nelle persone dei gangster da lui fottuti nell’intro del film, una di quattro “vignette”, straordinarie per sintesi, che sono fondamentali proprio per capire da dove provengano i quattro protagonisti e dimostrare come non si possa sfuggire al passato. Clouzot sceglieva invece di iniziare con i personaggi già radunati in America Latina, perché non c’era bisogno di dire da dove provenissero. Clouzot parlava di sfruttamento, ingordigia, capitalismo. Friedkin parla di destino, della società che ti sputa fuori e, così facendo, rivela la tua vera identità al di là delle maschere che indossi per compiacere gli altri (“Tutti sono qualcos’altro”, sentenzia a un certo punto la moglie di Cremer). Parla del vivere ai margini del sistema, che è una cosa molto americana, ma allo stesso tempo fa la cosa meno americana in assoluto, ovvero nega la seconda chance: i personaggi di Clouzot accettano il lavoro per poter tornare a casa. Quelli di Friedkin e Green non hanno alcuna intenzione di tornare a casa e accettano il lavoro per continuare a scappare, ma facendolo meglio (con più soldi). E non ce la faranno, esattamente come quelli di Clouzot, ma in un film americano fa ancora più impressione. D’altro canto Friedkin ci aveva già abituati a questo ribaltamento ne Il braccio violento della legge, dove, come ci spiega Darth Von Trier, scelse addirittura di cancellare il lieto fine vero della vicenda per scambiarlo con uno nichilista e beffardo.
Spesso sentiamo dire che ogni storia è un viaggio, e in questo il road movie è la quintessenza della storia di crescita e maturazione. Il salario della paura, però, sovverte anche questo schema: alla fine chi non è morto non è certamente cambiato, né migliorato, e l’apoteosi del viaggio è in realtà la più profonda discesa in un incubo lisergico e allucinato (parlo del terzo atto, girato nel deserto lunare delle Bisti Badlands, in New Mexico) che termina con un letterale fuoco gigante da spegnere. Scanlon/Scheider ci arriva a piedi, distrutto, dopo aver attraversato un inferno con enorme fatica, solo per trovarci un altro inferno.
Il fatto che Friedkin giri tutto questo con il suo stile scarno e realistico, con inserti di documentario (la gente che guarda in macchina, esattamente come in The French Connection, ma forse con più consapevolezza da parte del regista) e con assolutamente zero fucks given nei confronti del gusto del pubblico, è allo stesso tempo encomiabile e totalmente folle. Ma è uno dei motivi per cui amiamo Friedkin e per cui non si può non amare Il salario della paura.
Come ha scritto Tim Applegate:
«Come Coppola, Friedkin portò la sua troupe nella giungla e non fece mai davvero ritorno. La Golden Age di Hollywood negli anni ’70 […] era finita. Sulla sua scia, Hollywood si rivolse di nuovo al genere di intrattenimento escapista che gli autori della Golden Age avevano apertamente messo alla porta. Easy Rider fu rimpiazzato da Star Wars, Toro scatenato da I predatori dell’arca perduta. Il ringiovanimento dei film americani era, ancora una volta, iniziato.»
Ma questa è un’altra storia.
Finalmente in Blu-Ray quote:
“Cari bambini, ecco il cinema”
George Rohmer, i400Calci.com
BONUS: Conversazione con Fritz Lang (1975) – di Cicciolina Wertmüller
Friedkin è chiaramente un regista provocatorio e cinico; entro il 1974 ha girato sia “ il migliore inseguimento della storia del cinema” sia “il film più spaventoso della storia del cinema”, ma a lui non basta, perché è tremendamente, sacrosantamente ambizioso, coraggioso e certi limiti, si sa, esistono solo per essere superati. Gli viene data l’occasione di intervistare un mostro sacro del cinema che adora e che lo ha influenzato molto, ma siccome il consenso accomodante non è esattamente il suo stile, che cosa fa? Lo fa incazzare. Friedkin tratta questa intervista come tratta i suoi film, ovvero mettendosi in gioco completamente, facendo crescere la tensione a fuoco lento, addirittura creando una red herring narrativa all’inizio (il racconto di Lang del suo incontro con Joseph Goebbels e conseguente fuga, da brividi) e poi spostando il soggetto della discussione sui temi che a lui interessano davvero – anche se in realtà il filo rosso che lega tutta l’intervista è, dopotutto prevedibilmente, la rappresentazione del Male.
L’inquadratura è fissa e ricorda quella usata da Welles per le “interviste” del reporter Jerry Thompson ai conoscenti di Charles Foster Kane. La pellicola usata è, probabilmente, molto simile a quella che Lang stesso ha usato per i suoi film: in bianco e nero, a bassa definizione, a rulli di dieci minuti; è un omaggio? Forse, ma Friedkin lo usa anche per innervosire sottilmente il suo soggetto, costretto più volte a interrompere il racconto e a riprenderlo; ma questi sono gli unici interventi di “montaggio”: per il resto, e per una questione di onestà e trasparenza, ogni rullo include l’assistente che annuncia la “Take One”. Comincia il duello dialettico fra i due registi, e i commenti al video si dividono in “Friedkin tratta male Lang, come si permette?” e “Lang tratta male Friedkin, come si permette?”; ciò vuol dire prima di tutto che l’intervista è uscita bene, e poi che questi due animali da cinema sono molto più simili di quanto loro stessi si immaginino. Lang descrive il suo modus operandi come “la sicurezza di un sonnambulo”, che gli ha consentito di fare film liberamente al tempo del nazismo imperante e, in qualche modo, sopravvivere (la sto facendo facile); Friedkin fa la stessa identica cosa nei suoi film, e persino questa intervista lo dimostra.
Ma il principale conflitto fra i due riguarda il valore politico dei primi film di Lang: mentre quest’ultimo insiste che no, non c’è nessun sottotesto, lui girava le storie che gli piacevano e punto, Friedkin insiste che invece sì, quei film erano davvero politici, che a Lang piaccia o no (glielo dice proprio in faccia, testualmente), e che avevano la stessa potenza espressiva dell’arte di Georg Grosz. Dove sta la verità? Consideriamo tutte le letture a posteriori de L’Esorcista sottolineate dall’esimio collega Stanlio Kubrick nel suo pezzo: alcune possono essere ben fondate, altre possono essere i deliri di spettatori molto fantasiosi, ma Friedkin non le ha mai scoraggiate; viene da concludere con l’assunto che “l’autore non sa mai tutto della propria opera”.
Friedkin, però, una coscienza politica e sociale ce l’ha; e più la si vede emergere lungo il corso di questa intervista, più ci si rende conto che è sempre stata presente, seppure senza prese di posizione ideologiche manicheiste, nei suoi film: lungi dall’essere semplicemente un regista avido di successo e di denaro (suvvia, diamoci un taglio, trovatemi qualcuno a cui non piacciano i soldi), è anche un uomo che vuole osservare, imparare, illustrare la condizione dell’uomo contro un Potere malvagio – e non è forse ciò che ha fatto lungo tutta la sua filmografia? The Birthday Party, Il Braccio Violento della Legge, L’Esorcista parlano di quello. Ma Friedkin vuole superarsi, vuole andare più a fondo, fin dove Lang stesso non è riuscito; quel Fritz Lang che tesseva rapporti amichevoli sia con la polizia sia coi criminali perché “voleva imparare qualcosa sugli esseri umani”. Friedkin sta investigando il Male e la sua rappresentazione, le reazioni del pubblico, la possibilità di renderlo interattivo; vedremo poi come questo gli tornerà utile per Cruising.
Recensione interessantissima, la spiegazione del perchè questo film, che è di un livello mostruoso, non abbia avuto il successo che meritava nè ora sia considerato il cult movie che dovrebbe essere è veramente intrigante, anche se un pò triste. Chissà quanti film ci sono in realtà che non hanno avuto il successo o la notorietà che meritavano per cause esogene.
Ricordiamo cmq anche il remake italiano, ovvero “I Pompieri 2”, con Villaggio, Banfi, Boldi, De Sica ed un fantastico Luc Merenda mai cosi in parte.
“remake italiano, ovvero “I Pompieri 2””
Genio, cazzo! :-)
Applausi 👏🤣
Ho visto Sorcerer completamente ignaro di cosa fosse, a parte la presenza di una famosa scena su un ponte di corde. Oltre a essere spazzato via da quest’opera, ed essermi alzato dal divano sudato, ho visto il film come una lunga rappresentazione del MALE che ti perseguita sempre e dovunque. Forse interpreto come MALE quello che Rohmer chiama Destino, ma mi ha davvero colpito come F. riesca a mettere ovunque simboli e riferimenti occulti (il rilievo del diavolo nelle rovine della giungla, il nome del camion, la sequenza finale che è un vero film di fantasmi). Il male che fanno gli uomini (tutti orrendi: mafiosi, truffatori, terroristi, nazisti) li segue dovunque e non li lascia mai, ed è più facile uscire vivi dalla cazzo di giungla che scollarsi di dosso il MALE in cui sono stati immersi per tutta la vita. Mi chiedevo a inizio visione cosa c’entrasse il regista dell’Esorcista con tutto questo, ma tutto mi ha fatto ricredere.
Splendidi pezzi come sempre, e ringrazio GGJJ qui sopra per avermi risparmiato dal citare I Pompieri 2 :D
Che bello leggervi quando fate così…quante volte ve l’ho detto? :) Niente, me lo devo rivedere…ho solo un vago ricordo della scena del ponte.
Grazie.
solo applausi e commozione..
p.s. perché i pompieri 2? illuminatemi vi prego
Perchè la trama, per quanto in chiave LEGGERMENTE diversa e con un finale appena appena differente è quella. Ad un certo punto dividono anche il carico di esplosivo su due camion in modo che almeno uno arrivi al pozzo in fiamme
devo recuperare anche Pompieri 2 allora…pazzesco
E pure dovrei recuperare l’intervista con Lang di cui ho visto solo due film (Metropolis e M) ma che film!
Metropolis lo metto là, nell’empireo, a parte il frettoloso finale accomodante che se non sbaglio fu un ripiego…Ma sto divagando.
Al secondo posto *** dei miei film della vita.
Tanto da essere citato nel mio secondo libro (tranquilli, non faccio spam o markette occulte) come esempio di genio che fa il giro a 360° e, invece di suscitare quantomeno un minimo di timore reverenziale, viene scartato per semplice pigrizia dell’intelletto.
Comunque, se la recensione non fosse abbastanza chiara: recuperatelo, guardatelo e riguardatelo, a costo di rubarlo o scaricarlo illegalmente.
*** Non dico qual è il primo perché è banale.
Ma per il terzo lascio un hint. E’ il più bel film horror del 2013, che condivide con il “Salario della Paura” un tema di fondo, non si scappa dal male, dal passato e dalle che si fanno nel vano tentativo di diventare qualcos’altro da ciò che si è.
Err Corrige:
“e dalle che si fanno nel vano tentativo… ” —-> “e dalle stronzate che si fanno nel vano tentativo di.. ecc.”
2013…hmmmm…We are what we are? Le cannibali? O the Conjuring. O Stoker…O cos’altro? Svelaci l’arcano.
@Pier
Non voglio andare off topic, proprio in un thread associato ad un film che amo.
Però sei lontanissimo :-)
Pensa ad un film horror, fottutamente horror, che però nominalmente è un thriller/noir. Mai recensito qui su i400calci, ma diretto da un regista (famosissimo) già trattato su questo blog.
Ci provo ancora una volta. Prisoners di Villeneuve.
@Pier
“The Counselor” – Ridley Scott.
(ammetto di esser stato involontariamente fuorviante, il film è effettivamente del 2013 ma è uscito in Italia nel 2014).
addirittura da podio? è un film che ogni volta che ci inciampo lo guardo volentieri ma che ha dei momenti inspiegabili come se si fossero dimenticati un pezzo di dialogo o di trama.. boh
Da quella grandissima penna di Cormac McCarthy
Mai capito perché non abbia vinto il Nobel per la letteratura
Scusate l’offtopic
Dio che filmone! E Dio, che recensione!
Anch’io scoprii il film un po’ per caso (finendo sudato abbestia, manco avessi portato io la dinamite!) e solo recentemente ho letto qualcosa sulla produzione ambiziosa e travagliata di Friedkin. Ma non conoscevo tutti i dettagli.
Tra l’altro scrivere che “Il ringiovanimento dei film americani era, ancora una volta, iniziato” mi sembra lasci pensare che la cosa non sia avvenuta solo in un’occasione, e sospetto ci si riferisca anche alla situazione degli ultimi anni.
Altrochè. I superpigiamini già di per sè supergiovani diventano giovanissimi (l’insopportabile Holland), e la creazione della parola “Young Adult” un’offesa all’intelligenza con tutti i prodotti derivati.
Young Adult? Ai miei tempi eravamo solo bambini o ragazzi, e sufficientemente intelligenti da vedere e capire tutto senza ridicoli veti. E a 5 anni andavamo a scuola da soli, coi mezzi, mica come oggi che ce li devi portare per mano fino alla maggiore età.
@Pier
“Young Adult? Ai miei tempi eravamo solo bambini o ragazzi […]
Pier, non so quanti anni tu abbia (punto € 1,00 su: Over 40), e condivido con te la nostalgia di un mondo analogico più semplice, fatto di sabbia, lombrichi e partite di pallone su campi sterrati improvvisati, 6 canali in croce in TV, ma il mondo è cambiato.
Young Adult non è che un “target”: un campione potenziale di utenza che viene misurato e monitorato (attraverso i social, geolocalizzazione dello smartphone o google analytics) e sulla base di questo chi ha i soldi per finanziare uscite cinematografiche/letterarie/televisive decide quando e come distribuire prodotti ad esso destinati.
Che poi è davvero solo un nome moderno. Ai “nostri tempi” non credere che passassimo sotto il radar degli esperti di marketing. Pensa alla collana “Piccoli Brividi”, che aveva proprio i 14-18 enni come target preferenziale.
Solo che oggi, che più di un tempo necessitiamo di dare un nome alle cose, sembriamo tutti etichettati come vacche da mungitura.
Ma nella sostanza non è cambiato nulla.
E’ il mercato a decidere. Se “Il Salario della Paura” uscisse oggi (caratteristiche fondamentali: regista post-successo della vita, quindi tutti ad aspettare un flop, attori di seconda fascia, trama e finale nichilistico) sarebbe stroncato e nascosto sotto il tappeto come negli anni 70. Uguale proprio.
Ma la cosa interessante è come sia periodicamente necessario un simile cambiamento di approccio, anche da parte del pubblico. Se in tempi di pandemia gli unici film che la gente va a vedere al cinema sono quelli della Marvel (contro i quali personalmente non ho nulla, anzi) qualcosa vorrà dire.
Anche Lucas e Spielberg erano “New Hollywood”, quello che è notevole è che tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80 di quel movimento a fare cassetta erano rimasti solo loro.
Non c’è nulla di male nei film Marvel, men che meno in Lucas o Spielberg, fa strano che periodicamente rimangano soli.
Mi sembra che siamo d’accordo. Anche sull’Over 40. E’ proprio quello che volevo esprimere: un mercato che cerca/trova un target e lo attacca.
Però fa danni. Un mercato che pensa che esista un non meglio identificato “Young Adult” cui dare in pasto cose. O recentissimamente, un Woke, un politicamente corretto, un senso di colpa a priori che crea prodotti standardizzati e stolidi.
Però discordo su altre cose. Non era uguale allora. Si guardavano solo gli incassi al botteghino. Punto. L’altro giorno ho visto un documentario “Django & Django” dove si vedono bambini di otto anni o giù di lì, in bianco e nero, intervistati alla rai, che dicono che a loro piacciono i Western (spaghetti, Django appunto) perchè a loro piace il sangue , la violenza ( estetizzata, ovvio). No, non è come una volta. Una volta la vita ti calciava in faccia. Oggi, purtroppo, molti giovani, chiusi nelle vite irreali di internet, soffrono per un commento, un like. E decidono di togliersi la vita. Ho deragliato, completamente.
Ma tratta uno da bambino e sempre rimarrà bambino.
Fai un film che anche un idiota può vedere…e solo un idiota lo vorrà guardare.
oggi uscirebbe con protagonista The Rock, Ryan Raynolds e altri 2 3 pseudo attori scappati di casa…ci sarebbero le battutine e farebbe cagare ovviamente…se penso che un piccolo capolavoro come The lost city of Oz (trama diversa ok, ma film realistico e avventuroso senza fronzoli) ha avuto zero successo possiamo immaginare che Sourcerer nel 2022 non sarebbe manco scritto…
@<b<Pier
Wait a minute.
“Si guardavano solo gli incassi al botteghino. Punto.”
Parliamo degli anni 70? 80? Allarghiamoci e facciamo anni ’90?
Bene.
Non esistevano i multisala. Un cinema cittadino normale (diciamo.. l’IDEAL di Torino? :-D :-D :-D) aveva 1, max 2 sale: decideva qual era il film di cartello e quello trasmetteva. Al pubblico poteva piacere o meno, ma l’experience di andare al cinema era già così emozionante -a casa avevamo tutti dei catafalchi da 30″ pesanti 1 tonnellata, molti dei quali in b/n- che comunque anche il film peggiore ti sembrava il film della vita. E potrei citarti almeno un paio di film che visti al cinema da piccolo mi fecero dire “WOW!!!“, rivisti oggi mi dico: “Oh ma che merda!”. E sì, sto parlando di Guerre Stellari, per dirne uno tra gli insospettabili.
(corollario: non esistevano piattaforme di streaming, 650 canali in TV ecc. ecc.)
Non esisteva Internet: e qui non credo di dover argomentare come concedere a tutti di discettare su tutto trovi degna rappresentazione nel pensiero di Isaac Asimov, che dice che “La tua ignoranza vale quanto la mia competenza” -Googlatevi la citazione esatta.
Oggi -più di allora- la critica cinematografica è… pavida. Ha paura di disturbare chi potrebbe investire in pubblicità sui siti internet, di rompere il cazzo di distributori, a produttori dalla causa legale facile ecc.
Non soffrivamo, TUTTI, di ADHD: l’information overload di questi ultimi anni, proveniente da diverse fonti, dal cell o dalla Smart TV, ci ha letteralmente resi incapaci di seguire, con la dovuta sospensione dell’incredulità, un film per 1 ora e mezza / 2 ore.
Non voglio generalizzare, ma quanti -onestamente- seguono molti film in 2X, oppure in background mentre chattano o controllano IG, o si fanno una pippa, o si depilano i peli pubici?
E se pensi che non sia così, ti ricordo ancora di quel pirla su queste pagine che nella recensione di “Wrath of Man” ha stroncato il film per la scena dell’HOT DOG (che non esiste).
Sul “WOKE” non mi esprimo.
Adoro il “gender fluid”, adoro che essere etero sia ormai vista quasi come una perversione da boomer, adoro che le donne vogliano essere uomini (un concetto assai strampalato di parità di genere) e che gli uomini vogliano essere più femminili.
Dico, ma quale altro processo naturale/culturale/sociale può portarci più velocemente all’estinzione di massa? E ben venga!
@Mereghè. A me the lost city of Oz è piaciuto parecchio. :)
@Anonymous. Ma io concordo con quello che scrivi. :)
Però ci tengo, da vecchio Trekker, a fugare il dubbio che io ce l’abbia con qualsivoglia essere umano che faccia ciò che vuole con la propria sessualità.
Quello che mi irrita è il sussiego falso, l’ipocrisia di oggi ( di alcuni) che se sei etero sei tu a essere sbagliato. Purtroppo una potente lobby di alcuni Gay rompe il cazzo! Esempio? Vi ricordate del governatore della puglia Nichi Vendola? Comunista così! Poi però, raccattati i danari pagati da noi tutti, il Comunista sfrutta una donna come se fosse una VACCA, non una persona, per mantenere e sgravidare suo figlio. Ecco, questa gente fa male all’umanità.
Molti omosessuali accettano il proprio destino, come molti etero. Avere un figlio è un dono, non un diritto.
Io ho sempre adorato quei film sui trans…non ricordo il titolo…le tre trans che girano l’Australia. E quell’altro simile statunitense.
Ma questa cultura Woke preconfezionata ha proprio rotto il cazzo. Certi Gay hanno proprio rotto il cazzo.
Scusate…mi è partita la brocca.
Priscilla
Bravo, Priscilla. 1994. Un film adorabile. E l’anno successivo gli americani fecero “To Wong Foo, Thanks for Everything! Julie Newmar”, con il compianto Patrick Swayze. Non così bello come Priscilla ma piacevole.
Ho visto Il salario della paura un po’ di anni fa su Italia uno o Rete 4, e all’epoca non avevo associato che fosse lo stesso regista di Il braccio violento.
Pur piacendomi gli ho sempre preferito il film di Clouzot, e mi sarebbe piaciuto che nella recensione ci fosse stato qualche riferimenti in più al film francese.
L’impostazione è chiaramente diversa, nel film di Clouzot i protagonisti sono degli avventurieri, dei soldati di ventura che vogliono ritornare a casa, ma che sono rimasti bloccati in un limbo. Pensavano di trovare fortuna in Centro America, e non ci sono riusciti.
Nel film di Friedkin i protagonisti sono sgradevoli, degli assassini, dei terroristi. È impossibile empatizzare con loro. Si portano dietro l’odore della morte, l’odore di carogna putrefatta e il sentore di una fine inevitabile. Loro sono nella sala d’aspetto dell’inferno, solo che non lo sanno.
Ho amato il film di Clouzot perché ho amato i personaggi, sono così umani, veri.
Bimba, lo svedese, così stoico. Che si sbarba su un camion carico di nitroglicerina perché anche di fronte alla morte vuole essere pulito in ordine.
L’italiano Luigi, che semplicemente è un uomo buono. Nel mio immaginario è lì per offrire una possibilità alla sua famiglia o per raccogliere il denaro per sposarsi e mettere su famiglia.
E poi ci sono i due personaggi principali, Mario e Mister Jo. Mario è il giovane leone, un Yves Montand carismatico che poco alla volta percepisce la sua forza, mostra la sua determinazione distruttiva e senza limiti, fino a soppiantare il vecchio leone, Mister Jo.
E poi siamo a Mister Jo. Ho amato Mister Jo, è il mio personaggio preferito del film. Un uomo ormai giunto oltre la mezza età, che non ha più la forza, il vigore e le possibilità di un tempo, ma che si fa più grosso di quello che è mostrandosi forte e arrogante di fronte agli altri. La sua è una posa, una pantomima che poco alla volta viene smascherata. Ma forse neppure lui ha capito che il suo tempo è passato.
Nel finale del film vorrebbe ritirarsi dall’impresa, perché ha capito che Mario non si sarebbe fermato di fronte a niente, ma non gli è concesso. Muore in un finale straziante e commovente, che ho amato.
Per chiudere la butto lì e rilancio su i Pompieri 2: mi sembra di ricordare che in un episodio di Bonanza venisse ripreso pari pari la trama de Il salario della pausa con Hoss Cartwright che guidava il carro con la dinamite.
13 anni fa ero a Los Angeles a studiare, e spesso andavo in un cinema vicino casa dove proiettavano vecchi classici. Spesso facevano un double bill retrospettivo con ospiti, ed una sera erano in programma Il braccio violento della legge e L’esorcista. All’intervallo fra i due film venne sul palco proprio Friedkin, simpaticissimo! – a deliziarci per mezz’ora con una serie di aneddoti su Hollywood uno più divertente dell’altro. Era uno che non se la teneva quando era giovane, figuriamoci da pensionato…
Che meraviglia. Ricordi qualche aneddoto? Condividi, dai.
Sono passati molti anni e ricordo più le risate e l’ovazione alla fine. L’unico aneddoto che ricordo bene riguarda Hitchcock (e che sapevo già perche avevo letto libri sul nostro, ma raccontate da lui era un’altra cosa): insomma quando Friedkin giovanissimo lavora alla televisione fa un paio di puntate della serie Alfred H. presenta, prodotte dal Maestro in persona. Un giorno H. arriva sul set, arriva davanti a Friedkin e gli dice con tono superformale britannico: “Mr Friedkin, vedo che non porta la cravatta (sarà stato il ’68..)” e se ne va. Anni dopo quando Friedkin vince l’oscar per FC, al ricevimento si presenta al tavolo di H e gli dice tirandosi il papillon con la mano: “che ne dici della mia cravatta ora??” Friendkin ci disse: “H. mi guardò come se fossi matto, non si ricordava certo di quello che mi aveva detto anni prima.” Però il sassolino doveva levarselo, che tipo…
Di questo film me ne aveva parlato per la prima volta mia mamma descrivendomi in termini abbastanza entusiastici la sensazione di tensione che trasmettevano certe scene. Considerato che non è assolutamente una fine conoscitrice del cinema in generale, men che meno d’azione, direi che per me è una prova sufficiente che il buon Friedkin ha fatto un ottimo lavoro
Con “mia mamma” non intendevo la madonna eh
Oh Jesus, tutte le mamme, naturali o putative, che ci hanno voluto bene sono Madonne. :)
Ieri notte, mezzo addormentato, affronto “the King’s Man”…ok, sarò rincoglionito…lo rivedrò…ma sentire un pessimo accento russo, smaccatamente offensivo… mi ha disturbato. Non ho finito il film, ma a metà pensavo fosse… (aggiungete voi). Altra cocente delusione.
Pienamente d’accordo sul fatto che il discorso critica sia un filo piu’ complesso.
Ma pare che il mondo sia pieno di gente che all’idea di vederti fallire e’ pronta a godere come ricci.
Aspettano un tuo tonfo per ricoprirti di merda.
E una cosa del genere non la trovo solo sbagliata, ma pure pericolosa.
Perche un conto e’ quando un regista fa un brutto film.
Ci sta. Capita. Anche ai grandi.
Ma un altro è balzare in piedi urlando L’HO SEMPRE DETTO CHE QUESTO NON VALEVA UN CAZZO! E ORA HO LA PROVA!!
Servirebbe un tocco di imparzialita’ in piu’, specie per il ruolo che si ricopre.
Poi ci si domanda perche’ si faceva il tifo per Price in “Oscar Insanguinato”, dove ammazzava tutti i critici che gli avevano sistematicamente demolito tutte le rappresentazioni.
Sembra che per gente come Tony Scott o Carpenter gli esami non finissero mai.
Ad altri come il fratello scemo del TONY o Nolan li promuovevano in automatico.
Su questo film, come su quello di Cimino, pesava una sentenza gia’ emessa.
Di condanna senza appello.
Beh, a parer mio e’ un film della Madonna.
Anche se la prima volta che l’ho visto (dopo parecchio, visto che non era neanche facile da trovare) quasi mi veniva da ridere.
Mi son detto “Ma e’ I POMPIERI 2!!”
E in effetti I produttori e il regista dicevano di essersi ispirati proprio a questo film.
Una pellicola tesissima, che ti tiene in bilico ulla corda di un precipizio dall’inizio alla fine.
Tensione alle stelle. Con un quartetto di bastardi cltalmente ben fatti che sarebbero perfetti come protagonisti di un film solista, ognuno di loro.
E in effetti e’ quel che accade, quando ci vengono presentati.
La storiella che le difficolta’ fanno nascere solidarieta’ e spirito di gruppo qui non ha diritto di cittadinanza. Cosi’ com’e quella che prevede che alla fine di una simile odissea, sempre ammesso che se ne esca vivi, come minimo si diventa uomini migliori.
Qui alla fine non cambia nulla. E come da tradizione anti-climax in stile Friedkin…ti vien da pensare che sia stata una gran fatica per nulla.
Vediamo un Friedkin all’apice del suo cinismo, davvero senza pieta’.
Nella parte del deserto, complice anche il disastroso stato mentale del protagonista (Scheider lo trovo a dir poco superbo) la pellicola assume quasi toni metafisici.
Capolavoro. Da riscoprire.
Ma credo proprio che a loro il film di Cimino sia piaciuto (come a me). A noi?
E Fitzcarraldo pure.
Dici?
No, perche’ in genere sono sempre gli stessi.
Comunque e’ una cosa triste, anche se risaputa. Perche’ avviene ovunque.
Il fatto che conta piu’ di ogni altra cosa l’arruffianarsi i critici.
Se pesti i piedi alla persona sbagliata, sei finito.
Spesso chi dovrebbe giudicare si basa sui pettegolezzi, sulle impressioni e sull’area che tira.
Seguono l’onda. E non e’ il modo di recensire un lavoro, a parer mio.
E su questo, su “I Cancelli del Cielo” e pure su quello di Herzog circolavano voci terrificanti. Di condizioni di lavoro impossibili.
Ma produzione travagliata non equivale automaticamente a film di merda.
Ma quel che mi chiedo e’…perche’ non vale con tutti.
Ripeto: la maggior parte delle volte si tratta di avere i santi giusti in paradiso.
Guarda solo la vanzinata di Ridley Scott sui Gucci.
E’ una roba indifendibile, forse uno dei punti piu’ bassi che abbia mai toccato.
Eppure, tutti a lanciarsi in lodi sperticate.
L’avesse fatto la buonanima di suo fratello Tony (non c’e’ pericolo)…l’avrebbero massacrato.
O forse alle volte certi film nascono sotto una cattiva stella, e basta.
Aggiungo ancora due cose: a me il titolo originale “Sorcerer”, una volta scoperto, e’ piaciuto da matti.
Anche se “Il Salario della Paura” ha una valenza proletaria che, in quanto fiero operaio, non posso che apprezzare.
Cosi’ com’e adoro il design dei due camion, protagonisti quanto chi li guida.
Grossi e mostruosi. Vere e proprie creature di Frankenstein su ruote, essendo stati assemblati con pezzi e rimasugli di altri camion.
Mai visto ma vorrei vederlo da una vita, lo conosco solo di “fama” (e sì, aggiungete anche me al coro di “Ma è i Pompieri 2!”). Dico solo che associarlo a I Cancelli del Cielo, e quindi al tramonto della New Hollywood, è quantomeno azzeccato. Dopotutto Sorcerer uscì nel 1977, e sappiamo tutti quale altro film uscì quell’anno.
Film enorme e, come sempre per questa rubrica, gran pezzo.
Però ecco, per quanto il lavoro di Friedkin sia stato epico (e secondo me molto dello status di cui Sorcerer gode attualmente è dovuto alla sua lavorazione raccontata dallo stesso regista), a mio parere non riesce a superare il capolavoro assoluto di Clouzot, che qui nella recensione è trattato un po’ troppo alla leggera. Quando si dice che Vite vendute sia troppo verboso mi pare si vada un attimo a confondere le acque, visto che lì si parla giusto nel primo atto (nelle 2 ore e mezza totali della versione integrale) e la restante epopea sui camion sia pressoché un film muto con un incedere di tensione impareggiabile.
Sarà che personalmente ho visto prima il film francese e solo successivamente l’adattamento di Friedkin, ma mi è parso che quest’ultimo mantenga debiti enormi (anche puramente di messa in scena) col primo.
Ho parlato poco di Vite vendute perché volevo parlare di Sorcerer, che secondo me è una roba a se stante, al netto degli ovvi debiti, ci mancherebbe. E non ho detto che è verboso: ho detto che si parla molto in quanto film fatto in un’epoca diversa. E questo, sì, include anche le parti in cui si parla meno, nelle quali si parla comunque di più rispetto a quello di Friedkin, che invece asciuga all’estremo tutto, indubbiamente anche per fare gara a chi piscia più lontano con Clouzot, eh?
non mi è piaciuto, Vite Vendute immensamente superiore IMHO
Off topic. “The king’s man”. L’ho rivisto. In effetti ero un pò stanco ieri…Al netto di un paio di accenti troppo caricati da alcuni attori ( il tedesco e il russo) e un Rasputin troppo caricaturale… un bel film d’avventura con una bella fotografia e sontuose location. E con un bel messaggio antimilitarista.
“Sorcerer” è un vero Capolavoro. Allo stesso livello di “The French Connection” e forse, addirittura, ancora più ispirato. Grande Cinema.