Serve un motivo per fare una retrospettiva su William Friedkin? No. Ma noi ce l’abbiamo: il motivo è che non avevamo ancora coperto praticamente niente di suo. E quindi ora copriamo tutto. Seguiteci nel nostro nuovo, imprescindibile speciale: Le basi – William Friedkin.
Insomma, quando le cose non vanno, oh, c’è poco da fare: non vanno. William Friedkin, l’uomo che aveva sbancato agli Oscar con Il Braccio Violento della Legge, quello che subito dopo aveva piazzato un film come L’Esorcista, uno che di fatto ha contribuito a rendere la Hollywood degli anni ’70 – come dire? – la Hollywood degli anni ’70, s’è fregato con le sue stesse mani. A fare l’antipatico con tutti, a furia di mandare a fare in culo gente del calibro di Bernard Herrmann, a pensare sempre: “Io sò io. E voi non siete un cazzo“, la fortuna gli ha girato le spalle e, da dopo il clamoroso tonfo al botteghino con Il Salario della Paura, il ragazzo fatica a riprendersi. E voi che siete gente di mondo, lo sapete meglio di me: lo showbiz non è proprio un pranzo di gala. C’è gente cattiva là fuori, pronta a cancellarti da un momento all’altro. E come lo sapete voi, lo sa pure William.
Da molto tempo non ero più nella lista dei registi di serie A e stazionavo nella zona grigia di Hollywood. Venni a sapere che Tony Fantozzi, mio caro amico e agente per vent’anni, diceva a molta gente: “In questa città Friedkin è finito”. Era spiacevole, ma vero… Il fallimento è una malattia contagiosa. Dopo un paio di giorni, gli agenti smettono di farsi vivi e non ti richiamano più. Come una pausa di Pinter, il silenzio è pieno di significato.
Sì, l’agente di Friedkin si chiamava Tony Fantozzi. Non è una bellissima notizia? Cioè, è stato un po’ un merda col nostro Billie, ma è anche vero che si chiamava Tony Fantozzi, dai. La seconda notizia è che il concetto comunque è passato. William Friedkin s’è bruciato, non ha più santi in paradiso. Però è anche vero che ha ancora tanto da dire. E allora fa la famosa mossa dell’album omonimo.

“Capite? Dobbiamo tornare alle origini!”
Avete presente quei gruppi che, dopo il successo iniziale, fanno un secondo disco deludente, seguito da un terzo in cui tutto va in vacca? Dai, quelli che riescono a farsi cacciare dalla major e pure a farsi voltare le spalle dai fan delle prima ora. E cosa fanno solitamente questi per tentare di tornare in auge? Firmano per un’etichetta indipendente e fanno un quarto disco omonimo. Copertina monocolore e logo della band. Semplice, diretto, zero fronzoli. Sembrano proprio voler dire: “Oh, vi ricordate? Eccoci qui. Siamo i vecchi regaz di un tempo!”. È una sorta di ritorno alle origini, un voler tornare indietro nel tempo per ritrovare quella spinta primigenia che li aveva trasformati in semi divinità. Dai, è famosissima la mossa dell’album omonimo! E Friedkin per il suo nuovo film, fa un po’ lo stesso. Torna alle origini, vuole tornare indietro nel tempo. E allora, un po’ come un innamorato nostalgico, tenta di rimettere insieme tutti quegli elementi che hanno decretato il suo primo grande successo. Ma, essendo pazzo (o sapendo esattamente quello che fa), tenta di rimettere insieme tutti quegli elementi che hanno decretato il suo primo grande successo… per fare fare qualcosa di completamente diverso.

Tipo. Non esattamente, ma tipo. Comunque c’è un caprone in copertina, per cui direi ok.
Per prima cosa trova un libro. Si intitola To Live and Die in L.A. L’ha scritto Gerry Petievich, uno che per 19 anni ha fatto parte dei servizi segreti. Petievich è uno che ci sa fare, è uno tosto: ha preso gran parte della sua esperienza, l’ha romanzata e ci ha scritto un libro che parla principalmente della lotta del protagonista, Richard Chance, contro un falsario di nome Eric Masters. Friedkin lo legge, capisce che è quello giusto e decide di trarne un film. Un po’ come fece per The French Connection, il libro di Robin Moore del 1969 alla base del suo Il Braccio Violento della Legge. Questa volta a dire il vero le cose sono un filo più semplici visto che c’ha già pensato Petievich a romanzare la questione. Friedkin comunque ci lavora su e ci tira fuori una sceneggiatura, scritta quasi di getto, in sole tre settimane. Poi sapete com’è lui, no? Prende l’autore come consulente (da qui il credit come sceneggiatore), ma poi fa di testa sua e cambia un paio di cose qua e là (sulle quali torniamo più tardi).

Siamo a questi livelli di anni Ottanta
La seconda mossa è quella di sapere leggere una città. Il Braccio Violento della Legge era la fotografia perfetta della New York anni ’70? Ok, allora spostiamoci dalla parte opposta degli Stati Uniti, andiamo a Los Angeles. E cambiamo completamente stile.
Non volevo che il film fosse una copia de Il Braccio Violento della Legge. Al posto del look macho e ruvido di quel film volevo qualcosa di più simile allo stile unisex della Los Angeles degli anni Ottanta. Mi rivolsi a Lily Kilvert non solo perché era una scenografa di talento ma anche per poter contare su una sensibilità femminile.

Natura morta
Come direttore della fotografia sceglie Robby Müller, già al lavoro negli States per un film culto come Repo Man – Il Recuperatore ma che si era fatto le ossa in Europa, soprattutto al fianco di Wim Wenders. A sentire Friedkin, fu il lavoro di Müller per Paris, Texas a convincerlo che lui era la scelta adatta.
… ero rimasto colpito dall’uso della luce, dalla composizione delle inquadrature e dai lunghi piani sequenza. Era questo lo stile con cui volevo girare il mio Vivere e Morire a Los Angeles: la città doveva essere rappresentata come una terra di nessuno cinica e violenta, sotto un sole bruciante
Queste scelte, inutile dirlo, si rivelano perfette. Vivere e Morire a Los Angeles è il film da vedere e rivedere se pensiamo agli anni Ottanta. E dire che Los Angeles è una città difficile da raccontare al cinema. Ci vogliono registi come John Carpenter o Michael Mann per riuscire a tirar fuori da qui tentacoli di strade, da quelle infinite spianate di cemento qualcosa di interessante. O un Friedkin in stato di grazia. Il risultato è proprio quello da lui descritto qui sopra: sin dai titoli di testa, Los Angeles ci appare come una landa desolata regolata solo dalla violenza. Una (non) città fatta principalmente di strade, di ponti di metallo, di ghetti, di bettole piene di gente ubriaca in pieno giorno, di case brutte o squallidi motel con la moquette in terra.

Moquette e Marnie
C’è una sequenza (la sequenza) che si conclude in un vicolo che sembra essere la periferia malfamata del Messico: lamiere, macchine abbandonate, fabbriche e camion sullo sfondo. E tre giamaicani che passano di lì per caso. Strafatti. Mentre suonano dei tamburelli. È una sequenza breve ma molto significativa. Ad ogni visione mi colpisce sempre come qualcosa di bizzarro, inatteso, quasi fuori contesto rispetto a tutto il resto del film. Ha una sua potenza quasi onirica che cozza con tutto quello che è stato mostrato fino a quel momento.

La città degli angeli
Avere Petievich come consulente permette a Friedkin di avere un bel po’ di veri poliziotti e agenti sul set (lo stesso Petievich fa un piccolo cameo), ma Friedkin deve ancora trovare i due protagonisti, Chance e Masters. E non è una cosa semplice. Soprattutto se hai un budget di sei milioni di dollari. Come ci ha spiegato già Darth nel suo pezzo su Il Braccio Violento della Legge, la scelta dell’allora sconosciuto Hackman come protagonista fu rischiosa, difficile da gestire una volta sul set, ma poi particolarmente azzeccata: un cambio radicale rispetto ai classici protagonisti dei film di genere usciti fino a quel momento che si è rivelata non solo perfetta ma soprattutto lungimirante. Con quella lezione in mente, Friedkin per questa sua nuova avventura si muove in una direzione opposta. Dopo averlo visto portare a teatro Kovalski di Un Tram Chiamato Desiderio, sceglie di puntare sul novizio William Petersen che in CV aveva solo una piccolissima parte in Strade Violente di Mann (è il barista che minaccia James Caan con una mazza da baseball). Un figaccione con la faccia di uno sempre sul punto di chiederti scusa. Petersen riesce a incarnare perfettamente una nuova tipologia di antieroe. A differenza di Popeye, Chance è bello e atletico, lo vedi subito che è il buono del film. Però basta scavare un minimo anche solo in superficie per far venire fuori tutte le sue magagne: come il suo predecessore è ossessivo, al punto di essere sempre vicino al punto di rottura. Adrenaline junkie senza speranza, non gli importa se quello che fa mette a rischio la sua vita o, il più delle volte, quella di chi gli sta vicino: per lui l’importante è ottenere il risultato. Che sia diventato un poliziotto, un agente speciale, è quasi una casualità. Se quella mattina si fosse svegliato col piede destro invece che col sinistro, sarebbe diventato un criminale. Chance per altro non ha quasi nessun rapporto con le istituzioni. Per lui gli uffici, le scartoffie, i superiori sono solo ed unicamente una scocciatura. Esiste solo l’obiettivo. Il resto è superfluo.

OMG 1
È interessante anche notare quanto Petersen riesca tirare fuori un inatteso lato femminile dal suo Chance. Evidentemente innamorato del suo mentore (Michael Greene), affascinato in maniera morbosa dal suo rivale, affezionato e protettivo nei confronti del suo nuovo collega (John Pankow), inutilmente perfido con la sua donna, Petersen regala al suo personaggio delle movenze e dei tic fisici molto fluidi o, per usare l’aggettivo usato precedentemente dallo stesso Friedkin, unisex. Inutile dire che è la stessa direzione presa per il villain del film, Eric Masters, interpretato da Willem Dafoe, l’attore androgino per Antonio Masia.

OMG 2
Dafoe è un magnete, un vortice irresistibile di attenzione e riesce a dare corpo a uno dei migliori cattivi di tutti gli anni Ottanta. Miglior falsario su piazza, Masters è anche un artista, un pittore. Una volta finiti i suoi quadri però, evidentemente consapevole della caducità delle cose, per renderli unici e irripetibili li brucia. Masters è cattivo, forse – anzi, sicuramente – è pazzo, ma in superficie sembra un riccone di quelli che si godono la vita. Ha una Ferrari che fa guidare alla sua donna (che è ovviamente un donnuomo), si veste sempre in maniera impeccabile è circondato da lusso e tecnologia. Ma la sua vera anima è quella di un animale. Anche se gioca a fare il sofisticato e ha quella faccia, dentro è come il suo scagnozzo: un balordo grasso col bomber.
A inquadrare il film di prepotenza negli anni Ottanta poi ci pensano i Wang Chung, band new wave britannica attiva nel decennio 1980 – 1990. Friedkin li aveva scoperti col loro disco del 1983 Points on the Curve ed era rimasto stregato dal loro suono. Prima di iniziare a girare il film diede loro la sceneggiatura e gli chiese di usarla come fonte di ispirazione. Friedkin prese anche due canzoni dal loro disco precedente, Wait e la famosissima Dance Hall Days e le inserì nella colonna sonora. La scelta è interessante nel momento in cui l’apparente leggerezza eighties del gruppo cozza con l’innegabile pessimismo del film.
Insomma, il quadro è completo, gli elementi sono tutti sul tavolo. Vivere e Morire a Los Angeles è una sorta di continuazione de Il Braccio Violento della Legge ma, al tempo stesso, l’altro lato della medaglia, il suo opposto. La regia, la fotografia, i set, i personaggi sono tutti figli di quel capolavoro di quattordici anni prima, questo è innegabile, ma puntano in una direzione completamente diversa. Addirittura Friedkin riprende il colpo di pistola che chiudeva il film del 1971 e lo piazza in apertura di questo suo nuovo poliziesco. Da lì in avanti si diverte a giocare con le immagini, anticipando alcuni dei personaggi chiave del film e alternandoli alle desolanti vedute della città di Los Angeles. Friedkin mescola le carte, utilizza qui uno stile molto più allusivo, quasi metaforico che sicuramente è figlio della cultura del periodo, in speciale modo quella dei nascenti videoclip o della video arte. Ogni tanto, quasi inaspettatamente, ci sono immagini totalmente fuori contesto o fuori continuity, dei flash, come delle visioni del protagonista. Attenzione, non è lo stesso procedimento della sequenza onirica di cui sopra. Assomiglia di più a quando ne L’Esorcista compare per la prima volta quel fotogramma là.

Così, de botto, senza senso
Manca solo un elemento: l’inseguimento. L’idea è quella di fare qualcosa di più grosso e potente di quello realizzato per Il Braccio Violento della Legge. Già, mica facile, no? Friedkin prende il miglior stuntman su piazza, Buddy Joe Hooker e insieme cominciano a costruire una sequenza di inseguimento complessissima. Il dop Müller, dopo averla vista scritta alza le mani e dice che non se la sente. Friedkin fa spallucce e la affida a Bob Yeoman, un operatore che, cito testualmente: “era troppo giovane e inesperto per essere atterrito dalla sfida”. Vabbè, ma che vuole fare? Qual è la sfida? Bè, l’idea che hanno Friedkin e Hooker è quella di mandare una macchina a tutta velocità in contromano in autostrada. Cioè, prima c’è un inseguimento già assurdo, complessissimo, con una macchina che taglia la strada a un treno e alcuni movimenti di macchina che a vederli oggi mettono ancora i brividi per la precisione, ma poi, a metà c’è una pausa, un rallentamento. È un ritmo quasi musicale, uno stop and go. Dove il “go”, l’accelerata finale, corrisponde a Chance che imbocca un’uscita dell’autostrada in contromano.
Quando Chance supera le auto che vengono dalla direzione opposta, per le carrellate in cui la Chevrolet Impala F41 beige del 1985 si vede di lato, scoprimmo che non c’era bisogno che le altre macchine si muovessero: sullo schermo lo spettatore non riesce a capire se queste sono ferme oppure no… Poi però mettemmo l’Impala su un pianale telecomandato che poteva girare di 180 gradi, e che veniva trainato mentre le altre macchine venivano davvero in senso opposto, deviando in modo imprevedibile anche se a distanza di sicurezza.

Sorry, wat?
L’inseguimento si porta via sei weekend di fila per quattro ore al giorno di riprese, ma il risultato è assolutamente strabiliante. L’altra sequenza centrale del film è l’opera d’arte di Masters, cioè il momento in cui ci mostra il processo di fabbricazione delle banconote false. E qui entriamo direttamente nella leggenda. Friedkin chiede a Petievich di presentargli un vero falsario in modo da poter essere il più possibile aderente alla realtà. Friedkin dopo averci mostrato Masters alle prese con un suo quadro costruisce la sequenza come se anche questa fosse un’opera d’arte, partendo proprio da un grumo di colore spalmato da un pennello. In una location segreta, Friedkin realizza questo piccolo film nel film e il risultato è che alla fine sul set ci sono un bel po’ di banconote finte. Leggenda vuole che il responsabile degli effetti speciali si sia portato a casa qualche bigliettone da 20 dollari e che il figlio, inconsapevole, li abbia presi per pagare qualcosa. Risultato?

Qui è quando hanno rischiato di farsi arrestare
Nel giro di pochi minuti arrivarono quelli dei servizi segreti, fermarono il ragazzino e gli chiesero dove aveva preso i soldi. “Dal mio papà”, confessò. Il padre venne interrogato e disse che i soldi erano stati fatti per un film e che il responsabile era il trovarobe Barry Bedig. Alle quattro di notte Barry sentì bussare alla porta del suo appartamento a Ventura: “servizi segreti degli Stati Uniti”. Gli fecero il quinto grado per tre ore… Quando il film uscì, sui giornali si lesse di gente che aveva cercato di fabbricare banconote false seguendo il procedimento che avevo mostrato. Presi alcune delle banconote da venti che avevamo stampato su entrambi i lati, le misi nel portafoglio e le spesi in ristornati, lustrascarpe e altro. Effettivamente erano venute bene.

Io me lo appenderei in casa, per dire
Dicevamo delle differenze tra il libro e il film. Ma qui entriamo nella sezione che per comodità chiameremo SPOILER. Che vuol dire che se non avete ancora visto un film del 1985, e non volete rovinarvi la sorpresa, non dovete continuare a leggere. Ok? Friedkin ha un’illuminazione: decide che il protagonista del suo film deve morire. In maniera del tutto anarchica e anti spettacolare, nel primo vero confronto con l’antagonista, Petersen viene sparato in fazza dal suo scagnozzo, a bruciapelo. Non fa neanche in tempo a realizzare quello che sta accadendo, che ne esce con un buco in fronte. Friedkin, ancora una volta, preme sull’acceleratore del pessimismo, negando al film un lieto fine che in realtà corrispondeva alla realtà e sottintende nel finale un passaggio di testimone tra Chance e il suo collega, l’apparentemente ben più calmo e rispettoso Vukovich (Pankow). È la storia che si ripete, visto che l’ossessione di Chance nasceva proprio dal fatto di aver perso il suo mentore sempre per colpa di Masters. Vukovich capisce che per chi fa quella vita non c’è la possibilità di uscire da una spirale inarrestabile di violenza e si trasforma, anche visivamente in Chance.
Vivere e Morire a Los Angeles è un film incredibile. Stupendo. Una riflessione sul Falso, una storia in cui – come dice il regista stesso nel video che vi agevolo qui sotto – tutto è contraffatto: dai soldi che stampa Masters, ai sentimenti che provano i protagonisti, alle motivazioni che animano i personaggi. Un capolavoro che, come il suo illustre predecessore, riscrive le regole di un genere e che ci regala il poliziesco definitivo degli anni Ottanta. Dite che questo servì a rilanciare la carriera ormai stagnante del nostro beniamino? Non esattamente. Il film esce nelle sale e le prime recensioni sono piuttosto incoraggianti, ma gli incassi rimangono bassi. La MGM non fa nulla per sostenere il film (l’allora proprietario Ted Turner passa il 1985 a tentare di vendere la sua grande idea di colorare i grandi classici hollywoodiani in B/N) e poco dopo la sua uscita se ne perdono le tracce. E il telefono di William Friedkin non riprese magicamente a suonare.
https://www.youtube.com/watch?v=ZjmQE1AwPqYNel cast, oltre a quelli citati bel pezzo, compaiono un elegantissimo Dean Stockwell, John Turturro, Steve James e Robert Downey Sr. Tutte le citazioni vengono dal libro Il buio e la luce. La mia vita e i miei film, edito da Bompiani Overlook, ormai fuori catalogo. Ringrazio l’amico George Rohmer che, visto che la mia copia l’ho smarrita, mi ha prestato la sua.
DVD-quote:
“La mossa dell’album omonimo”
Casanova Wong Kar-Wai, i400calci.com
BONUS: L’affare del secolo (1983) – di Jackie Lang
L’affare del secolo non è quello che hanno fatto i produttori di questo film HAHAHAHAHAHAHAAHAHAHAHAHHA
Scusate.
Qui siamo di fronte al primo di una serie importante di Lo Sbaglio. La passione per storie vere e per l’esposizione di qualcosa che gli spettatori non sanno essere accaduto ma in forma spettacolare porta Friedkin a rivedere il cinema militare con un po’ di umorismo e Chevy Chase. Il risultato è cinema di denuncia nella forma di una farsaccia che non ha la sua impronta. Non solo la sceneggiatura manca di quella pungolatura che hanno gli script più seri dei film di Friedkin, quelli che vogliono provocare, spostare, infastidire e andare a prendere lo spettatore per fargli provare sensazioni forti, siano anche solo una grande incazzatura, ma anche la messa in scena è a tratti povera e quel realismo naturalista che aveva fatto la fortuna di Il braccio violento della legge e aveva impressionato in L’esorcista qui diventa in realtà l’opposto, un’illuminazione da teatro di posa di bassa lega.
Comincia una discesa solo parzialmente attutita da Vivere e morire a Los Angeles, discesa verso un cinema addomesticato e senza mordente, fatta di film tv, video musicali, episodi televisivi. La carriera che si sgonfia. Ed è difficile trovare attenuanti. Perché ce ne vuole per spegnere Chevy Chase, per levargli i tempi comici e la voglia di fare film nello stesso anno in cui gira uno dei suoi successi maggiori, National Lampoon’s Vacation. Invece L’affare del secolo, costato 10 milioni, incassa 10 milioni: un disastro (le produzioni incassano solo il 50% del costo di un biglietto, il resto va alla sala).
Per amanti del genere contiene uno dei peggiori effetti visivi dell’epoca, quello del Peacemaker, il drone che il protagonista vuole vendere al dittatore sudamericano di turno.
Film che non ho ancora visto e mi ero ripromesso di vederlo prima di leggere e commentare il pezzo, ma intanto vorrei far notare che nelle tag c’è scritto “live and DUE (2!)in la” e suppongo si volesse scrivere “Die”
Bella la recensione del Film. Ha colto effettivamente i punti salienti del film e lo stile. Però, personalmente, mi ha un pò deluso. Forse perchè è così quintessenzialmente anni ’80 e secondo me in alcune cose è invecchiato male.
E’ in effetti speculare a il braccio violento della legge. Ma dove il primo è sporco e realistico, e quindi regge bene il tempo che passa, questo è plasticoso come lo erano gli anni 80. Protagonista superficialmente belloccio, androginia ( come dite voi), inquadrature spesso troppo stilose, quegli inserti di ballerini ( checche?).
Ma la cosa veramente brutta è la gestione del comparto sonoro. La colonna sonora fa schifo. Sì, è perfettamente anni 80, sintetica e fatta con un gramo sintetizzatore e sì ti dice “siamo negli ’80”: ed infatti fa cagare. Dio che fastidio la musica di plastica anni 80.
Ma poi interviene , a volume altissimo, a cazzo. Parte un inseguimento, per dire, e si passa dal silenzio a questa orrenda musica che si tronca male senza senso un minuto dopo. E via così per tutto il film, per tutti gli inserti musicali. Sono cose che rovinano un film. Il “Braccio” non aveva musica, la colonna sonora erano i rumori della città.
Se poi di questo essere specchio perfetto della fuffa che erano gli 80 è un pregio vedete voi.
Ah, ll’esempio dei CULT però è completamente sbagliato. Love, Electric, Sonic Temple…tutti ottimi album. Proprio un esempio SBAGLIATISSIMO.
Rivedere “School of Rock” e studiare.
@pier
Però ora con tutto il beneficio del dubbio che si può dare a qualcuno che magari lo vede con gli occhi di oggi, a dire che la scena della stampa non è uno dei più grandi matrimoni tra musica e immagini della storia del cinema
Voglio dire
Ci vogliono le palle veramente grosse a dire una cosa del genere, quindi sì insomma ti rispetto
@Wim. Ma guarda, de gustibus non disputandum est, se ti piace bene così.
Ma io ci sono cresciuto con quella musica fatta TUTTA con sintetizzatori che allora (ad alcuni) sembravano moderni e oggi sembrano provenire dal giurassico. La musica della scena in questione è anonima, uguale a milioni di altre del periodo. Sembra fatta per ballare l’aerobica coi calzettoni (Flashdance?).
Quella musica lì, di quel periodo lì, per me ( beninteso, per me ma credo proprio per moltissimi) è invecchiata malissimo. Tutte le colonne sonore fatte prima e dopo gli 80 reggono. Quelle no (quelle ROCK degli ottanta reggono meglio anche se la batteria elettronica purtroppo inquinava tutto). Se ci pensi bene, oggi si è ritornati alle orchestrazioni o agli strumenti veri.
Pier, devi smetterla di fare il matusa rockettaro. Il Re del rock è morto. Cazzo, mi stai buttando nel cesso le colonne sonore anni 80, quelle adorabili musichette che furono ad esempio la colonna sonora di Top Gun, di Rocky 5, di Blade Runner. Vangelis, Pier, ripeto: Vangelis! E i gruppi anni 80 che ancora oggi con le loro tastierine vendono e riempiono palazzi o stadi: New Order, Depeche Mode, Duran Duran! Ok, i Pink Floyd sono stati i Pink Floyd, e Violator in confronto a The Wall è l’ opera di un bambino di 7 anni con la pianola Bontempi, ma non fu tutta merda colante.
@Adolf. Evvabbè Adolf, non ti incazzare, mi hai frainteso, forse mi sono spegato male.
No, certo non era tutta merda colante! E il Rock era molto vivo (Sopprattuto hard & Heavy). Per dire, avercene oggi di Duran Duran (specialmente Planet Earth, pezzo che adoro) e tanta altra roba fatta bene. Oggi, cazzo c’è la TRAP!
Io mi riferivo a questo caso specifico, a questo film e in senso lato a questa triste elettronica fatta coi primi sintetizzatori, due lire, e un uomo solo che con una testierina faceva queaste stolide musichette. :)
Non mi sono incazzato. È che sono di parte: sono stato il tastierista in un gruppo voce e tastiera. Facevamo The Final Countdown. Poi ci siamo sciolti. Il cantante non era abbastanza frontman per stare dietro alla mia Bontempi e al testo modificato: .
“Chi è che c’ ha il fumo?
Io ne ho un pochino
Sù prendi le cartine
Che io faccio il filtrino
Ma adesso sto male
Sto qui all’ ospedale all’ ospedaaale
E il motivo di tutto questo io lo sooo:
Mi stuppai una canna”
Mi permetto di citare la recensione per dire che “Vivere e morire a Los Angeles” è il film da vedere e rivedere, punto. Ho conosciuto personalmente gente che l’ha visto per la prima volta di recente e ne è rimasta fulminata.
De “L’affare del secolo” meno se ne parla e meglio è.
Sarà che ne condivide l’attore protagonista, William Petersen, ma penso che questo film faccia parte di un binomio con Manhunter. Entrambi capolavori e sì, entrambi polizieschi definitivi degli anni ‘80.
Petersen rullava potentemente in quegli anni, due film eccezionali!
Concordo in pieno, due film straordinari e purtroppo sottovalutati.
Articolo molto interessante, grazie a tutti.
Vi dico solo che oramai aspetto il mercoledì mattina solo per leggere Le Basi.
Massimo rispetto.
Quando il Mann non c’é, Friedkin balla.
E’ proprio il caso di dirlo. Mentre il primo é in tv a fare sfracelli col suo Miami Vice (personalmente se oggi esistono le serie che la gente ama così tanto, il merito é di questo telefilm. E di Twin Peaks. Che hanno portato le prodizioni televisive a livelli stratosferici. E’ forse un caso che fossero entrambe di due registi presi a prestito dal cinema? Direi di no), Billy butta fuori un film identico nella struttura.
Ora, prima di dire che Friedkin ha copiato da Mann potremmo dire che Mann a Friedkin gli deve più di un caffé, e quindi…di fatto il buon William non ha fatto altro che riprendersi ciò che era suo.
Però la similitudine é innegabile. E balza all’occhio sempre di più, ad ogni visione successiva.
Guardate l’inizio. Breve antefatto che mostra i due protagonisti (uno, in particolare) e poi…parte la sigla.
Bene. Tolto il pietrone dalla scarpa, per il resto niente da dire.
Capolavoro. Gli anni ottanta condensati alla perfezione in una pellicola.
Alla fine Friedkin prende il buono de Il Braccio Violento eccetera eccetera e lo catapulta dritto negli anni 80 con uno stile ipercinetico ed ultra – patinato.
Uno scotto che hanno pagato più o meno tutti. Da Rambo ad Alien, e non é detto che facesse così schifo, anzi…
Visto che si parlava di Faccia di Cuoio, di recente mi sono rivisto il 2.
Sì, indubbiamente é molto più gore. Ma soprattutto…non me lo ricordavo così SPETTACOLARE.
Con Hopper e il bestione mascherato che duellano a colpi di motosega che manco i Jedi, davvero. E Stretch che corre per i cunicoli che pare di vedere Ripley dentro la colonia infestata dagli xenomorfi.
Ma fosse soltanto questo, probabilmente non basterebbe.
Friedkin porta la formula collaudata del suo classico ad un livello superiore.
In tutto. Sia nella caratterizzazione dei personaggi che nelle scene.
Con Doyle e company i contorni erano ben definiti, nonostante spesso sia lui che gli altri sconfinassero alla gran più bella.
Qui é tutto ambiguo, senza più punti di riferimento.
Chance, che dovrebbe essere il buono, finisce divorato dall’ossessione e dalla sete di vendetta. Come Doyle, più di Doyle.
Fa saltare un’operazione imbastita da mesi, per colpa sua dei colleghi ci rimettono le penne, e a più riprese é sul punto di far fuori persino il suo partner.
Non si creano le classiche dinamiche da buddy movie, in quanto il suo nuovo compagno é un raccomandato, ed é lì per tenerlo d’occhio in modo da non fargli combinare cazzate. E lui lo sa.
Chance lo sa. lo sa benissimo, ed infatti lo ignora e non lo calcola minimamente.
Come Merrin con Karras, guarda caso.
Se con Papà Doyle aspettavi la fine del film per giudicarlo indifendibile, qui lo si molla sin dalle primissime battute.
E’ un animale sul sentiero di caccia e braccato allo stesso tempo. Una belva che non guarda più in faccia a nessuno.
Abbiamo poi la sua amante – informatrice doppio e triplo – giochista, che Chance tratta con metodi da stalker.
Lei forse lo ama, ma al contempo avrebbe una gran volgia di levarselo di torno.
Da qui la soffiata che lo fa finire in un casino a dir poco inimmaginabile.
Con Dafoe bisogn aprire una parentesi doverosa.
Come dico sempre io…azzecca il cattivo e hai risolto metà dei problemi del film.
Eppure, quando finisce con le ossa mischiate di botte per via della gang che non rispetta i patti e poi và da loro e li secca tutti, lì non si può che fare il tifo per lui. Punto.
La scena dell’inseguimento é a dir poco magistrale. Friedkin imbastisce l’arena e poi ci getta in mezzo Chance e il suo socio. E poi sta lì a vedere come faranno ad uscirne fuori integri.
Divertendosi un mucchio, aggiungo. E noi con lui, anche se rimani sulla corda dall’inizio alla fine.
Una tensione pazzesca.
Eppure ci riescono, a venire fuori da un ginepraio apparentemente inestricabile.
Meglio del famoso inseguimento? A costo di dire un’eresia…sì.
Più macchine, più casino e dura ancora di più. E poi c’é Vukovich a uralre CHE CAZZO FAI ogni due secondi.
Già. Vukovich. Non manca poi il classico finale anti – climax come tradizione Friedkiana comanda.
Giusto per citare Karras…le cose non vanno come previsto. E Vukovich, che fino a quel momento aveva fatto la comparsa si ritrova da solo. In una situazione veramente di merda, e con pochissimo tempo a disposizione per decidere sul da farsi.
E alla fine…capisce che Chance aveva ragione.
Aveva ragione lui, se non altro.
Menzione d’onore per il doppiaggio in italiano. Sia lodata l’abitudine di trattare i polizieschi yankee come i poliziotteschi di noialtri. E quindi infarcirli di parolacce a tutto spiano.
Musiche fantastiche, almeno per me che ne sono un cultore.
In definitiva…GTA Vice City quando Vice City nemmeno esisteva.
Vent’anni fa sono stato a Los Angeles. E con enorme piacere mi sono accorto che Friedkin é riuscito a catturare alla perfezione l’atmosfera caotica di quel posto.
TI senti spaesato. Una città che é di fatto grossa come la mia regione, senza punti di riferimento, dove ci si sposta su delle vere e proprie autostrade.
Per un italiano, abituato a piazze e monumenti, é una sensazione straniante.
E poi le luci, la sera. Persino i fasci luminosi emessi dai lampioni trasudano sporco, in certi quartieri di periferia.
A stare a L. A. ti senti in questo film. E direi che non esiste complimento migliore, o prova più lampante del magnifico lavoro compiuto da Friedkin.
Capolavoro. E suo miglior film, a parer mio.
L’ho visto per la prima volta in pieno lockdown quindi la percezione potrebbe esserne stata influenzata.. me lo ricordo come film faticoso, lento, polveroso, arido, violento e disilluso, la sensazione di svegliarsi sotto un sole puzzolente dopo una sbornia con alcool scadente.
Non mi è piaciuto per quelli che sono i miei gusti, ma lascia un segno profondo, una memoria sensoriale densa e ricca
Primo: “Vivere e morire a Los Angeles” (To Live and Die in L.A.) è uno dei titoli più fighi di sempre. Secondo: è il poliziesco “serio” definitivo degli anni ’80. Musica, inquadrature, l’atteggiamento e la vita dei protagonisti, le scelte registiche e il montaggio. Tutto è puro anni ’80 e viene urlato fortissimamente in ogni fotogramma. Terzo: Friedkin è un cavallo di razza e se trova la storia giusta dirige come pochi e questo lavoro ne è l’ennesima prova.
Filmone che non mi stanco mai di rivedere e che per mere questioni personali lo preferisco (di pochissimo…) a “Il braccio violento della legge”.
Denis: del film esiste un finale buono dove Chance non muore, ottimo l’inizio con la fucilata in faccia al suo vecchio compagno che 3 giorni dopo andava in pensione ma stare a casa no ?
La morte di Chance è prefigurata prima quando Masters va fuori la banda dei neri se guardate bene c’è un nero molto simile nei capelli che prende una fucilata in faccia, e prima di andare all’incontro finale Chance guarda il gettone trovato dove è stato ucciso il suo gemello all’inizio.
Amo visceralmente questa meraviglia, adoro la colonna sonora dei Wang Chung, ovviamente posseggo il Blu Ray e con questa recensione mi avete caricato a pallettoni per una nuova meravigliosa visione.
Per me W. Petersen qui e in Manhunter ha raggiunto l’olimpo.
Tutte le volte che rivedo il flash del suo volto a fine titoli di coda mi viene la pelle d’oca.
Questo per me è il cinema.
Comunque Dance Hall Days è una delle canzoni più calciabili di sempre.
“Prendi la tua ragazza per i capelli
E tirala vicino e lì, lì, lì*
E prendi la tua ragazza per le orecchie
E gioca sulle sue paure più oscure”
*falle sentire la matita in tasca
Violenza e machismo oltre ogni limite. Le parole sono importanti. Ora vi saluto, che riascoltarla mi ha fatto venire voglia di fare violenza. Colpa vostra.
Son tornato. Le ho prese da una fan delle Salt ‘N Pepa. Fa malissimo. Colpa vostra.
Sulla serie di friedkin tratta dal film si sa niente
Attenzione: pippone in arrivo…
A proposito di Petersen, curioso il suo destino: nell’arco di due anni gira (da protagonista, e non è poco) Vivere e morire a LA e Manhunter, lavorando con due mostri sacri come Friedkin e Mann (non al loro apice, è vero, il primo apparentemente in fase calante e il secondo in ascesa, ma sempre fenomeni sono, e i risultati si vedono). I film sono due flop, quanto basta per stroncare anche la migliore delle carriere (figuriamoci quella dell’emergente-poco più che trentenne Petersen), eppure nel tempo diventano due cult. Petersen, che nel frattempo, per non farsi mancare nulla, aveva rifiutato una parte in Platoon e il ruolo in Goodfellas andato poi a Liotta, si ritrova così ad essere identificato come il protagonista di due opere che hanno contribuito a definire un certo tipo di cinema ed estetica anni 80.
Sulla difficoltà di raccontare LA al cinema: concordo in parte con il recensore. Oltre a Mann (probabilmente il migliore sotto questo aspetto), Carpenter e Friedkin, aggiungerei in ordine sparso Fuqua (Training Day), la Bigelow (Point Break) e Tarantino (Pulp Fiction – direi al livello di Mann nel raccontare LA) e in tempi recenti Winding Refn (Drive), quest’ultimo tra l’altro, debitore proprio di quel tipo di cinema anni 80.
Aggiungerei anche Chinatown di Polanski, che ne pensi?
Sì, forse una differenza tra Chinatown e gli altri film menzionati è che questi ultimi presentano una fotografia della città contemporanea al periodo delle riprese, mentre Polanski ricostruisce una Los Angeles di 30-40 anni prima, a similitudine del successivo LA confidential, ad esempio.
Vi suggerisco il documentario “Los Angeles Plays Itself” (2003), sulla storia della città di Los Angeles come “personaggio” nella storia del cinema. Molto bello. Ci sono, se ricordo bene, tutti o molti dei film da voi citati e molti di più.
Recuperabile credo su Amazon o, meglio, sulle ben note vie “Fluviali”.
Eccolo su un sito polacco online. Verificato. ( E’ sottotitolato in spagnolo ma io i miracoli ancora non li faccio).
https://www.cda.pl/video/58132496b
@Casanova: semmai la tua copia non dovesse saltar fuori su ibs la trovi a 10 euri