Ormai la menata la conosciamo tutti e, secondo me, persino i più abili facitori di punta al cazzo e i più temibili snob del genere si sono affezionati all’antologia horror più riconoscibile e conosciuta dai tempi di Masters of Horror. V/H/S 85 è la sesta espansione – dopo l’originale, il “funziona – rifacciamolo!”, LO SBAGLIO, la scusa puerile degli anni novanta parte prima, la scusa puerile degli anni novanta stavolta quasi duemila parte seconda – nell’album delle figurine sgranate di cineasti amanti dell’horror (il creatore Brad Miska e ci metterei anche l’onnipresente David Bruckner) che avevano bisogno di una giustificazione come un’altra per collezionare cortometraggi dell’orrore – e due lungometraggi spinoff che espandono altrettanti episodi (Amateur Night da V/H/S e Slumber Party Alien Abduction da V/H/S/2) ovvero SIREN e Kids Vs. Alien. Nel 2012, memori di tutti i soldi del mondo che, solo cinque anni prima, aveva tirato su quel guercio di Oren Peli con Paranormal Activity e presumibilmente incendiati all’idea che un insipiente di siffatte proporzioni potesse essere l’ambasciatore del found footage e dell’horror tutto, gli amici del club “Damnatio memoriae Betamax” hanno trovato la scusa giusta per fare del buon cinema di genere fornendo ai registi di volta in volta coinvolti – tipo Adam Wingard, Ti West, Timo Tjahjanto e Gareth Evans, Nacho Vigalondo – pochi paletti (found footage girato con la grana del V/H/S), appena sufficienti per dare alle varie antologie una forma compiuta e coerente, ma non troppo tacchenti da risucchiare le personalità degli autori convocati a sbizzarrirsi.
Per la quinta interazione della faccenda, gli amici di V H ed S si sono finalmente decisi a scollinare le alture della malinconia definitiva e sono passati agli anni 80. Precisamente al 1985. Annata ragguardevole in cui il dittatore dell’Uruguay Julio María SANGUINETTI (nomen omen) viene ufficialmente eletto presidente, in cui quella sultanata di Amadeus vince correttamente ogni Oscar che conta e in cui WrestleMania debutta con Hulk Hogan e Mr. T che si prendono a pizze in faccia con Mr. Wonderful Paul Orndorff e Roddy Piper. Bei tempi. Il 1985, peraltro, è anche un’ottima annata per il found footage. Dal lontano oriente emerge una coppia di giapponesate finto snuff appartenenti alla stessa serie di film (Guinea Pig), le quali mandano ai matti l’occidente. Sono i mediometraggi Devil’s Experiment e Flower of Flesh and Blood, esperimenti estremi di effetti speciali plastici che fanno strippare Charlie Sheen – come se Charlie Sheen avesse bisogno di ulteriori stimoli per strippare. I film escono in Giappone nell’85, ma all’inizio degli anni 90 un critico statunitense di nome Charlie Gore (MACCOSA) passa Flower of Flesh and Blood a Sheen omettendo alcuni dettagli fondamentali sul contesto produttivo. Sheen dà di matto, convincendosi che sia davvero uno snuff movie in cui dei giapponesi matti torturano e dismembrano una donna. Non so se per l’effetto delle droghe o cos’altro, fatto sta che Sheen, tutto preoccupato, porta il film all’FBI che apre un’indagine. Un ottimo uso dei soldi dei contribuenti, oserei dire. Sigla!
V/H/S 85 è buono, amici. È gradevole e finanche garbato. Non so, però, se “gradevole” e “garbato” siano gli aggettivi più ambiti per un’antologia dell’orrore. Però è quello che penso. V/H/S 85 non incute terrore, non ti lascia con lo schifo addosso, non provoca spaventini memorabili, non va a sguazzare nei peggiori istinti della melma umana, non si arrischia a mostrare graficamente particolari perversioni, non turba i sogni dei benpensanti, né titilla le fantasie dei mentecatti con qualche strano e inedito kink; ma nel suo insieme ha una dignità cinematografica che si mantiene costante tra un episodio e l’altro. Tra il suo zenit (io dico Dreamkill) e il suo nadir (sempre a parer mio, God of Death) non c’è tutto questo abisso. Sono 111 undici minuti di horror alla portata di tutti – anche dei meno avvezzi al linguaggio – che però hanno la dote di riuscire a non indignare, né a offendere o infastidire i fanatici del genere, che non grideranno al capolavoro ma nemmeno alla perdita di tempo.
Alla cornice narrativa ci pensa il veterano David Bruckner con Total Copy. Che tra un episodio e l’altro mette in scena la storia del bambino Rory, studiato in laboratorio e raccontato sotto forma di documentario televisivo. Il bambino Rory, in apparenza statunitense tanto quanto l’Happy Meal, è in realtà un essere (alieno?) mutaforma che viene riempito di cultura televisiva americana da un gruppo di ricercatori della Stamer University. Potrà mai andare a finire bene una premessa del genere? Che ne so io, guardatevi il film se volete una risposta.
Alla burba Mike P. Nelson – il giovane del gruppo da prendere a schicchere dietro l’orecchio, che già aveva diretto il reboot di Wrong Turn – viene affidato il doppio episodio collegato, No Wake / Ambrosia. Nel primo, c’è un gruppo di sette amici in viaggio in camper. Il loro peregrinare alla ricerca di un posto dove campeggiare all’insegna del deboscio li porta a colonizzare una zona dove c’è proprio scritto No Trespassing, vicino a un laghetto dove c’è apertamente scritto No Swimming. Ma loro sono giovani ragazzi ganzi degli anni 80 protagonisti di un horror, e le regole le seguono sì, ma con il cazzo in mano, una visiera di plastica fosforescente in testa e urlando “Reagan uno di noi!”. Il loro campeggio è benedetto da cadaveri putrefatti di scoiattoli che scompaiono sulle sponde di uno specchio d’acqua in cui questi figli prediletti di uno yuppie e una dose di cocaina tagliata con l’intonaco – gente che si pettina i riccioli con il coltello a serramanico – decidono di fare sci nautico. Viste le premesse, i regaz vengono giustamente cecchinati da ignoti. Risorgono più o meno tutti, grazie al misterioso schifo contenuto nel lago e nonostante le ferite truci riportate – tipo budella esposte, mandibole maciullate e crani spalancati. Nel secondo episodio diretto da Nelson, una famiglia allargata molto statunitense festeggia la giovane Ruth a botte di punch analcolico e insalata di patate. Sullo sfondo riappare il camper di No Wake. Ma la famigliola è troppo impegnata a celebrare la tradizione dei VII: ogni membro della famiglia Wringley, infatti, passa all’età adulta solo dopo aver ucciso sette persone. Uhwee. È stata l’adolescente Ruth a trucidare i regaz del primo episodio, senza sapere che il lago li avrebbe riportati in vita. La fresca iniziata ha anche prodotto un video della sua impresa, ça va sans dire. Ma gli amici zombie hanno avuto l’infame idea di contattare le guardie. I Wringley, però, sono pronti alla pugna. Zie e nonno compresi. La parola d’ordine è una sola: non farsi prendere vivi e non disonorare la famiglia. È una mattanza, breve ma intensa.
In God of Death della quasi esordiente Gigi Saul Guerrero (l’episodio M is for Matador di ABC’s of Death 2½ e Bingo Hell) c’è un buon assaggio di tv messicana con le notizie di costume e società presentate da Ahorita TV, con Lucia De Leon. Ueppa. A un certo punto scatta il terremoto e Lucia reagisce escalamando “¡Ay Chihuahuas!”. La cosa migliore dell’episodio. Arrivano i soccorsi, los bomberos, e si tenta di fuggire dal palazzo che sta per crollare mentre le scosse di assestamento attentano alla vita di sopravvissuti e soccorritori. Solo che a un cero punto i superstiti arrivano in un seminterrato ricoperto di arte pre-colombiana accompagnata da strilli fantasmatici. Il bombero Eddie viene posseduto da Mictlān (per gli amici Mictlāntēcutli), si sbudella da solo con un piede di porco e inizia ad ammazzare gli altri prima di diventare il sacrifizio di suddetta divinità azteca cattivissima. A un certo punto appare anche un petto nudo femminile totalmente a gratis che apparecchia la tavola per un’estrazione coatta di cuore a mani nude. La faccenda più interessante dell’episodio è la sfilza di soprannomi impronunciabili di Mictlāntēcutli, tipo Ixpuztec Nextepehua Tzontemoc e via dicendo.
TKNOGD, diretto da Natasha Kermani, mette in scena l’omonima performance di arte moderna di Ada Lovelace, che evidentemente presa male dalla visione di Tron si esprime con asprezza sulla morte dei vecchi dèi e sulla nascita di un nuovo dio della tecnologia. Ella fa partire un video in cui un nerd parla di techno gloves e di visori che ha chiamato eye-phones. La parola “eye-phones” viene ribadita ossessivamente almeno sedici volte, abbiamo capito il giuoco di parole, grazie. Senza contare che Ada Lovelave non approva gli eye-phones. Dice che gli dèi che venivano adorati fino all’altro giorno sono giustamente incazzati, e allora decide di avere una conversazione con questo supposto tecnodio: un bambino nato dall’odio, da invocare tramite un tecnoincantesimo che consiste in Ada che soffia e fa il verso del gabbiano dentro a un microfono. È tutta fuffa artistoide, ma dai e dai alla viene viene davvero evocato un tecnodemone. O forse è Marina Abramović che è tornata dalla Grande muraglia cinese ed è solo un po’ sconvolta, non saprei.
E poi, a sorpresa, arriva l’amico Scott Derrickson. Quello di Liberaci dal male, di Black Phone, di Sinister (e relativo sequel) e del primo Doctor Strange. Egli ci tiene a raccontare di un commissariato che riceve il nastro di un brutale omicidio filmato in prima persona ed eseguito a colpi di seghetta elettrica per il pane e rasoio per la barba usato per sgusciare occhi. Una settimana dopo, però, l’omicidio avviene per davvero. Seguiamo le indagini di questo detective che ha sia il capello tirato indietro con la brillantina, sia un baffo ragguardevole, sia una giacca con le spalline imbottite. Bingo anni 80. A venire beccato in flagrante mentre spedisce questi video turpi alle forze dell’ordine è un ragazzo tutto gotico satanista di nome Gunther, figlio di un tecnico della scientifica. Il pischello darkettone dice che il nuovo videoregistratore comprato dal babbo ha iniziato a incamerare su nastro i suoi sogni premonitori. È tutto abbastanza già visto, ma molto molto figo. Nonché un buon modo per concludere una buona antologia. Impreziosita da titoli di coda accompagnati da una canzone synth pop che racconta in breve le trame dei corti ed è abbastanza ‘ccezionale, riportando alla mente i crediti tutti matti di un altro found footage sgranato ma fatto come si deve, ovvero Dashcam.
Shudder quote
«Stiamo lavorando a un’altra antologia horror nostalgica a tema: riesumeremo Quibi»
Toshiro Gifuni, i400calci.com
La storia di Flower of flash and blood e Sheen mi ha sempre fatto morire. Chissà se sapendo quello che si sa oggi di lui il Buroe l’avrebbe gentilmente accompagnato all’uscita dicendo “certo signor Sheen, indagheremo…”
Il film mi interessa, ho visto i precedenti e questo pare di essere tra quelli ok.
Ho sempre pensato che dovrebbero fare una versione uncut per i migliori 4 episodi dell’antologia.
Secondo me farebbe il botto in sala e versione BD.
Non l’ho visto, ma letto così l’episodio del lago vietato contenente sostanza misteriosa che fa danni mi ricorda un episodio di Creepshow 2
Per restare in tema ovvietà, la battuta “eye-phone” l’avevano già fatta in un episodio di Futurama, solo che in quel caso erano davvero degli aggeggini da infilare nell’occhio. E per restare in tema Groening, la anchorwoman messicana che sbrocca mi ha fatto venire in mente questo: https://www.youtube.com/watch?v=7KYS6xeoBnc
Piccolo Trivia gustoso: la canzoncina finale cita apertamente He’s back (the man behind the Mask) di Alice Cooper, scritta per apparire sui titoli di coda di uno dei vari Venerdì 13. L’ho trovata una chicca parecchio goduriosa.
A me é la cosa che piu mi é piaciuta negli ultimi tre mesi tipo