Walter Hill ha segnato indelebilmente l’immaginario del genere action con uno stile inconfondibile: non ha bisogno di introduzioni ma di celebrazioni. In occasione del suo ultimo film, per la rubrica Le Basi, a voi il nostro speciale più ambizioso a lui dedicato.
L’ultima volta, avevamo lasciato il nostro amico Walter Hill a La guerra di Madso, non l’episodio più felice della sua filmografia, tanto per usare un eufemismo. Sono anni, ormai, che il Nostro non se la passa benissimo, tra flop e progetti alimentari. Della sua produzione anni zero salviamo solamente quella bombetta di Undisputed, mentre il resto è purtroppo da cestone dell’Unieuro.
E allora Walter Hill che ti fa? La famosa mossa dell’album omonimo: ritrova il vecchio amico Joel Silver e torna alle origini con un film che nel titolo omaggia il suo grande amore John Woo e, per il resto, cerca di recuperare le atmosfere dei buddy cop che lui stesso aveva praticamente inventato con 48 ore. Sigla!
Prima di scrivere questo pezzo, sono andato a rileggermi la recensione del nostro boss in persona, e ho riscoperto un trivia che francamente non ricordavo: la distribuzione italiana di Bullet to the Head aveva indetto un concorso per far decidere al pubblico il titolo italiano del film, ma è grazie a noi Nanni se per lo meno si è mantenuto il titolo originale sotto quello italiano, inspiegabile. Talmente inspiegabile che, non c’è bisogno di dirlo, Jimmy Bobo è poi diventato l’epitome dei nomi scemi che, ancora oggi, premiate con grande entusiasmo su Twitch.
Perché, come probabilmente la vostra memoria del pesce rosso ricorderà, Jimmy Bobo non è il vero nome del personaggio di Sylvester Stallone nel film: il suo killer a pagamento si chiama in realtà James Bonomo; “Jimmy Bobo” è solo il soprannome che gli è stato appioppato nell’ambiente della mala. L’intento era, palesemente, quello di spostare l’attenzione su Sly e il suo personaggio, per tentare di vendere il film basandosi sull’idea che Stallone avesse consegnato ai posteri un altro protagonista iconico, al pari di Rambo e Rocky. Ma ovviamente sappiamo bene quello a cui tutti quanti abbiamo pensato nel momento stesso in cui abbiamo letto quel nome…
(Ve lo avevamo detto da qualche parte che questo spot fu girato da Zack Snyder, mi pare. Se non ve lo avevamo detto, ve l’ho appena detto io.)
Tutto questo serve a dire che Buena Vista non aveva la più pallida idea di come vendere questo film, ed è proprio quando brancoli nel buio che vai a sbattere contro una cazzata: che titolo è Jimmy Bobo? Non è manco lontanamente un nome cazzuto e memorabile. Non è nemmeno il nome del protagonista! È il frutto di una strategia miope, uno dei punti più alti mai raggiunti dai nostri amati Titolisti Italiani ™. Sarebbe stato meglio lasciare il solo Bullet to the Head, ma, ehi, chi sono io per lamentarmi: il nome Jimmy Bobo ci ha regalato tanta gioia nel successivo decennio, per cui forse alla fine è stato meglio così. Era destino.
Ma sto divagando. Il punto è che nel 2012, anno in cui è prevista inizialmente l’uscita del film, sono passati due anni da The Expendables, quattro da John Rambo e sei da Rocky Balboa. Il revival di Stallone e dei vecchi eroi action è già un po’ in fase calante, ma non si è ancora arrestato del tutto: tra pochi mesi è prevista l’uscita di The Expendables 2, che promette di tirare in ballo Arnold Schwarzenegger e Bruce Willis in ruoli più consistenti, e prevede un cameo di Chuck Norris. Dovrebbe essere terreno fertile per Bullet to the Head, ma evidentemente i distributori hanno subodorato il possibile flop: sono le operazioni nostalgia a funzionare bene, mentre questo film, diretto da un ex grande regista, pare una roba veramente generica con un cast, a parte Stallone, di nessun richiamo (vi ricordo che Jason Momoa era un signor nessuno allora). Ha davvero qualche chance di funzionare al botteghino?
La risposta è un netto “No”: Bullet to the Head esce infine nel febbraio 2013 (dopo un’anteprima al Festival di Roma il novembre precedente) e incassa 22,6 milioni di dollari a partire da un budget di 55. È un floppone di quelli duri, che non cambia assolutamente le sorti della carriera di Walter Hill, purtroppo.
Succede spesso che i produttori e i distributori manco ci provino, quando subodorano il flop lontano un chilometro, scatenando così una spirale viziosa che si conclude inevitabilmente con un fallimento. Ma è venuto prima il Bobo o la gallina? Insomma, com’è Jimmy Bobo – Bullet to the Head? Meritava davvero di essere inghiottito dall’oblio del fiume Jared Lete? Mettetevi comodi, che ve lo racconto.
Sgombriamo immediatamente i dubbi: Bullet to the Head non è invecchiato troppo bene. All’epoca della sua uscita io mi ero abbastanza gasato all’idea di vedere Stallone e Hill alle prese con un buddy cop vecchio stampo. Poi ricordo di aver visto il film al summenzionato Festival di Roma e di essermelo fatto piacere. Ce l’avete presente quella sensazione, no? Lo sapete, in cuor vostro, che quello che state vedendo non è il massimo, ma per via delle persone coinvolte, o del fatto che recupera un filone che vi mancava, o che fa parte di una saga che amate, passate sopra ai suoi evidenti limiti e cercate di godervelo. Poi, con un sorrisetto di circostanza, vi lanciate in commenti tipo “Beh, dai, a me è ABBASTANZA piaciuto”. “Certo una volta li facevano meglio, eh? Però avercene”. Usate termini come “senza fronzoli”, “rigoroso”, “volutamente scarno”, quando sapete benissimo che mancava tutta la ciccia che normalmente rende questi film gustosi.
Ecco, Bullet to the Head è esattamente quel tipo di film: una riedizione del buddy cop che tocca tutti i luoghi comuni senza troppo entusiasmo, diretto dal regista che ha iniziato il filone e che qui si ritrova a copiare tutti gli altri (a partire da Tony Scott e le sue schitarrate elettriche in colonna sonora). La colpa non è tutta del buon Walter, che fa il suo e ci regala anche due o tre ‘splosioni vere, il giusto tasso di violenza e tiene alto il ritmo. Purtroppo il film è scritto maluccio: la sceneggiatura è di Alessandro Camon, italiano (di Padova) che ha prodotto, tra gli altri, American Psycho, Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans e Oltre le regole – The Messenger, di cui ha anche firmato la sceneggiatura. Camon ha adattato una graphic novel di Alexis Nolent, anche autore del fumetto da cui è stato tratto The Killer (quello di Fincher), il che fa di Bullet to the Head un cinecomic. Vi lascio un attimo a riflettere su questa cosa.
Non ho letto il fumetto originale, ma posso immaginare che Camon e Hill lo abbiano adattato liberamente, modellandolo secondo le loro esigenze e facendolo rientrare nei canoni del buddy cop americano, in particolare quello di scuola Joel Silver. Che comprendono, tra le altre cose, battibecchi brillanti tra i due protagonisti, in questo caso il killer James Bonomo e lo sbirro Taylor Kwon (il nostro amicone Sung Kang), giunto da Washington per indagare sulla morte del suo ex partner, un poliziotto corrotto (Holt McCallany di Mindhunter) finito in disgrazia, che proprio Jimmy e il suo partner Louis erano stati incaricati di ammazzare, prima di venire incastrati a loro volta, e prima che Louis ci lasciasse la pelle. Come da copione, si tratta dei classici co-protagonisti agli antipodi e, come in 48 ore, Walter Hill ci tiene a che non scoprano improvvisamente di starsi iper-simpatici, anzi: Jimmy e Taylor si odiano per tutto il tempo e accettano controvoglia questa alleanza, solo perché fa comodo a entrambi. Tutti e due hanno dei conti da saldare con Robert Nkomo Morel (Adewale Akinnuoye-Agbaje, il Mr. Echo di Lost), che ha fatto assassinare i loro rispettivi soci.
La chimica tra i due antieroi del buddy cop d’ordinanza è fondamentale, Hill lo sa bene, eppure qua è veramente floscia, i dialoghi tra loro ben poco brillanti e l’umorismo tiepido. Il più delle volte tutto questo si traduce in scambi di insulti e sfottò mentre Jimmy e Taylor sono in auto e si stanno recando dal punto A al punto B per il prossimo step dell’indagine. In genere si tratta di battutacce a sfondo razzista di cui è vittima Taylor, giocate sul luogo comune degli asiatici che sono tutti uguali, tutti cinesi o giapponesi (“Io sono coreano!”, sbotta a un certo punto il povero Taylor). Ora, al di là della lotta al politicamente corretto, il problema non sta tanto nel razzismo – che è più che altro goliardia: in fondo, Jimmy sfotte Taylor perché lo rispetta a suo modo, e non è certamente razzista – quanto nel fatto che si tratta di materiale che davvero non fa più ridere da almeno vent’anni, scritto in un modo che non avrebbe fatto ridere nemmeno vent’anni fa. Se in 48 ore ci sono battute di Nick Nolte che fanno un po’ rabbrividire, è anche vero che il film contiene allo stesso tempo la critica a quel tipo di pregiudizi e fa un discorso molto più sfumato e complesso sui rapporti razziali in America. Bullet to the Head è solo pigro.
E lo è anche in tante altre cose, tipo quando regala a Taylor un comodo deus ex machina nella figura di una collega di Washington che spinge due bottoni e gli dice dove andare (perché Taylor è uno tecnologico, non hai capito, lui fa le cose col telefonino mentre Jimmy è old school!). O quando i cattivi rapiscono la figlia di Jimmy per attirarli nel terzo atto. O quando, ancora, mette in scena un finale girato nella solita, generica fabbrica dismessa che manco i finali di stagione di Arrow, guarda.
Eppure Shane Black è quarant’anni che scrive sempre lo stesso film con questi stessi ingredienti, ed è una bomba ogni volta. Perché lo sappiamo, i cliché non sono un problema in sé (a parte te, fabbrica dismessa. Per te il Grande Fratello finisce qui), se li inserisci in un contesto ricco di cose strafiche, dettagli di pura ispirazione, personaggi vivi e memorabili. Shane Black questo fa: infarcisce un plot arcinoto con una galleria di personaggi indimenticabili calati in situazioni imprevedibili. Sappiamo bene dove si andrà a parare alla fine, ma se hai abbastanza idee per inserire gag, bei momenti d’azione, incastri e ribaltamenti, se sai insomma disorientare lo spettatore per non fargli percepire le tappe ben note di un percorso prestabilito, hai vinto la corsa del cinema.
Jimmy Bobo – Bullet to the Head non fa niente di tutto questo. Non dico che Walter Hill dovesse improvvisamente trasformarsi in Shane Black o nel Tony Scott de L’ultimo boy scout (anche se in certi punti ne imita malamente gli effetti di montaggio); non è la sua, lui è un duro cineasta anni ’70. Però almeno quel passetto in più al di sopra del DTV da lui ce lo dovremmo aspettare.
Poi, va detto, le poche cose che si salvano nel film sono tutti regali di Walter Hill: l’azione ha una concretezza sopra la media, le esplosioni, come detto, sono vere e gustose come un tempo. Il pezzo di bravura del film è però la scena del bagno turco, in cui Sly mena l’intermediario che lo aveva assunto per uccidere il collega di Kwon. È come se Hill avesse visto la scena della sauna de La promessa dell’assassino e avesse gridato “Anche io! Anche io!”. Vedere due uomini nudi che si scaraventano contro il marmo a suon di pizze in da la fazza è uno spettacolo. Di buono c’è anche il personaggio di Jason Momoa, un mercenario che, si scopre, in realtà non lo fa tanto per i soldi, quanto perché gli piace il suo lavoro; peccato che lo spunto venga sviluppato poco e troppo tardi, perché siamo dalle parti del Gary Busey di Arma letale: ci si poteva divertire.
Per il resto c’è la professionalità di un cast scelto bene: se Sung Kang non brilla particolarmente è per colpa di un personaggio davvero troppo generico, ma Christian Slater (nei panni di un viscido avvocato), Akinnuoye-Agbaje e Momoa fanno la loro parte con diligenza. E poi c’è ovviamente Stallone, che trasuda carisma anche a fronte di dialoghi ben poco ispirati (che magari si è pure riscritto, conoscendolo). È lui stesso a tirare a bordo Walter Hill quando il regista designato, Wayne Kramer, si tira indietro perché non la vede come l’ingombrante star. Hill ha detto di essere “sempre stato un grande ammiratore di Sly”. E alla sua star ha dato solamente un’indicazione:
Volevo che recitasse con la sua personalità naturale il più possibile. È una persona molto affascinante. Gli ho detto: “Non mi interessa che inventi un personaggio, ma piuttosto che immagini te stesso come il personaggio”.
Non a caso, quando vediamo il montaggio di foto segnaletiche di Jimmy all’inizio del film, sono tutte immagini prese dalle varie fasi di carriera di Stallone. James Bonomo è lui, se nella vita avesse deciso di fare il killer a pagamento anziché l’attore/regista. Prima dell’uscita del film sono girate voci secondo cui c’era maretta dietro le quinte e Sly aveva preso le redini del progetto estromettendo Hill dal montaggio. Voci poi negate, anche se è difficile pensare che non ci fosse niente di vero, soprattutto dato che il precedente regista se ne era andato proprio perché la sua visione non andava a genio a Stallone. In ogni caso, nella sua imperfezione e, in parte, inadeguatezza, Bullet to the Head un risultato lo ottiene: ci fa sognare cosa sarebbe successo se questi due titani dell’action si fossero incontrati al momento giusto, all’apice delle rispettive carriere. Diciamo in epoca Danko, ecco. Non lo sapremo mai, ma almeno abbiamo Jimmy Bobo a darci una vaga idea.
Per questo, e per le altre ragioni che ho detto, non si può volere troppo male a un film che, in fondo, fa il suo lavoro diligentemente e senza sporcare. Avrebbe potuto essere ben altro? Forse una ventina di anni prima sì. Ma avrebbe potuto essere anche molto peggio di così e, se non lo è, è grazie a Walter. Mi rendo conto che è una magra consolazione, ma è l’unica che abbiamo.
Italia 1 quote:
“Camon, Walter!”
George Rohmer, i400Calci.com
Io invece voglio malissimo a questo film. Intanto è una vergognosa marchetta alla Cina e stendiamo un velo pietosissimo sulla chimica tra Sly e Sung Kang. Poi insieme a Undisputed è il film della conferma che Hill come regista prettamente cinematografico è morto e spolto. Continuo con il dire che in generale è anche una specie di risposta/conseguenza dell’incapacità atavica di Stallone a lavorare con registi/sceneggiatori di un certo valore (anche se bolliti come in questo caso)senza rompere i coglioni, infatti la sua filmografia è zeppa di film fatti con registi della serie “chi cazzo è questo Marco Brambilla?” Proprio per la sua auotrialità/ego che di fatto gli hanno sempre impedito di mettersi al servizio e fidarsi di registi veri. Quindi i registi seri hanno lavorato con la Quercia Austriaca e non con lui decretandone il successo ( e, tranne rari casi,l’insuccesso di Sly al di fuori dei due avatar che conosciamo). Infine questo è anche l’ultimo film di Sly “giovane”, poi ha deciso di invecchiare quindi si è buttato via malamente. E il pensiero di quello che sarebbe potuto essere il film se girato ai tempi d’oro e in generale di cosa sarebbe stato di Sly se messo a disposizione di registi seri rende il tutto ancora più triste.
Film abbastanza MEH.
Ci sono affezionato solo per tirarlo in ballo come “carta bonus” quando si parla di pessimi esempi di Titolisti Italiani ™.
Credo che un essere umano possa dire “Se mi lasci, ti cancello” solo un tot di volte, prima di esplodere.
1) Alessandro Camon è un premio Jimmy Bobo ante litteram notevole. Pensa che bello se avesse una figlia di nome Eileen.
2) Non per bestemmiare in chiesa ma a pensarci bene anche “Sylvester Stallone”, se uno lo sentisse nominare per la prima volta, sarebbe un discreto Jimmy Bobo (torna alla mente la battutaccia nel Ciclone di Pieraccioni “Silve’ Stallone! Che quell’è stallone di nome e di fatto!”).
3) Il sempre ottimo Leo Ortolani sul suo compianto blog dalla breve vita fece una recensione disegnata che inaspettatamente esiste ancora sull’internet (cercatevelo da soli, se metto il link mi blocca il commento). Notare il parallelismo con Altrimenti Ci Arrabbiamo.
1) mi hai appena fatto tornare a mente la battuta che fanno su questa canzone in What we do in the shadows
“vedere Stallone e Hill alle prese con un buddy cop vecchio stampo”
Peccato che li vediamo in tutta un’altra cosa. Non è un buddy cop è “il bandito e la principessa” con Sung Kang nella parte della principessa che non sa niente della vita, ogni volta che apre la bocca proferisce frasi cariche di idealismo e belle speranze che fanno sbuffare l’uomo rude e navigato e OGNI SINGOLA VOLTA si fa salvare dall’eroe tranne l’unico momento in tutta la narrazione in cui il suo ruolo è passare al predestinato l’arma che lo farà trionfare nella tenzone con il cavaliere nero.
Un feuilleton quasi parodistico che ha, al di là di ogni possibile dubbio, un unico autore: non Walter Hill (bollito da decenni come sottolineato da questo malinconicissimo “le basi”), non Alessandro Camon ma Silvester Gardenzio “Sly” Stallone, come in tutta questa parte della carriera, ingombrante e poco propenso a mettersi al servizio del film.
Come questo film sia non dico “piaciuto” ma “considerato” è per me un mistero.
55 milioni?
Oramai piove sul bagnato…Walter è quasi arrivato alla sua fine cinematografica e per noi (meno male!) almeno finisce tra due film mi sembra Nemesis (Mio dio!) e quello morto per un cosa dollaro…
Insomma sembra scontato ma non lo è Walter Hill è riuscito invariabilmente a finire la carriere nel 21 secolo sbagliando tutto, ma proprio TUTTO quello che ha fatto dopo il 2000, Undisputend rimane lì, come un filmetto di galera che almeno però riesce ad appoggiarsi ai due protagonisti senza sbracare, tutto qui. Non mi mancherai Walter, ci puoi giurare! Sbagliare è umano ma SCAZZARE DI CONTINUO assolutamente no.
Morto per un cosa dollaro credo sia stato il primo.film recensito nella rassegna su Hill. No?
“Come ti chiami?”
“…BUBI.”
“Ahahahahah!Bubibubibubi!!”
Decisamente il punto piu’ basso toccato da Sly.
Ne ho un ricordo direi buono, che non mi rovinerò rivedendolo.
ma non è stato proprio hill a inventarsi i tizi-ignudi-che-se-le-danno-al-bagno-turco con darko?
Meglio lo spot del film di gran lunga
vabbè,
Sly si può rimettere in forma
e ci si può riprovare…