Per essere un film originale e fantasioso, ha il titolo più banale della storia; sì, è il proseguimento dell’antologia Show Pieces del 2014, però Alan Moore e il suo fedele collaboratore Mitch Jenkins potevano impegnarsi un po’ di più.
Avete presente i libri di Malcolm Pryce? Pryce ha deciso che voleva scrivere dei romanzetti noir surreali, ma anziché ambientarli nel misterioso sottobosco della malavita londinese li ha ambientati in una cittadina qualunque gallese dal tipicamente gallese nome di ABERYSTWYTH. Il primo volume si chiama appunto Aberystwyth Mon Amour ed è godibilissimo.
Moore e Jenkins fanno un’operazione simile ma la spostano nella natìa Northampton, un concentrato urbano di povertà, banalità e bruttezza; ai desolanti paesaggi urbani, iperrealistici, contrappongono però una storia surreale, rutilante, piena di personaggi coloratissimi, crimini, doppi giochi, sogni, sogni dentro i sogni e una quantità imbarazzante di citazionismo cinematografico (il protagonista all’inizio si presenta come “Robert Mitchum”), fumettaro (ancora il protagonista è una copia carbone di Dennis The Menace, l’eroe dei fumetti inglesi), televisivo (i due comici ricordano Morecambe and Wise). Più un’altra miriade di riferimenti e rimandi che occupano ogni attimo e ogni angolo dello schermo, esattamente come succede nelle strisce di Moore, in cui il mondo è costruito e raccontato anche ai margini. Conoscere la cultura popolare/mediatica inglese in effetti aiuta nella comprensione, ma si può vedere il film anche senza cogliere per forza ogni riferimento.
La trama è labirintica come si conviene: un investigatore privato viene incaricato da un anziano gentiluomo londinese di ritrovare un misterioso gioiello appartenuto alla figlia, barbaramente uccisa dal suo amante. Ma niente di tutto ciò è vero, e la verità si scopre progressivamente e si sfalda al tempo stesso, fra villains con la faccia maciullata a colpi di ananas, cantanti travestiti da Hitler, tassisti fin troppo saggi, giornaliste in coma per asfissia erotica… e, da ultimo, Alan Moore stesso truccato da falce di luna, che filosofeggia di fronte all’attonito protagonista. OK, questa in realtà non è una trama – ma, come avrete capito, mantenere una linea narrativa coerente è l’ultimo dei problemi di Moore e Jenkins. Quello che conta è l’atmosfera e, volendo, il “messaggio” nascosto fra una riga colorata e l’altra.
Il problema è che non conta molto altro; siccome stanno sostanzialmente portando sullo schermo un fumetto (scritto appositamente per lo schermo da Moore, d’accordo, non una trasposizione ma sempre quello stile lì), gli attori si sforzano di essere più bidimensionali possibile e ci riescono bene. I personaggi saranno simpatici e surreali finché si vuole, ma mancano di sostanza; il gioco citazionista dopo un po’ rischia di venire a noia. Tutto sommato, The Show rimane un film insolito, strambo e curioso, vertiginoso e superficiale (e benissimo fotografato), dipende da quanta carne al fuoco uno vuole.
Blu-ray quote:
“Vertiginoso e superficiale”
La lontana parente della defunta Lina Wertmüller, i400calci.com
Northampton brutta, ma “Jerusalem”, il romanzo che Moore le ha dedicato, è meraviglioso :)
Ah interessante, un’opinione fuori dal coro, puoi elaborare? Perché sento sempre dire che i romanzi dello stregone sono mattonate illeggibili e inintelligibili; e infatti pur considerandolo il più grande fumettista vivente (e forse di sempre) la sua prosa non l’ho mai toccata neanche con un bastone. Cosa mi perdo?
@Gigos: oddio, in effetti i gusti sono soggettivi e capisco che possa anche non piacere ma io l’ho trovato molto sentito, è proprio una dichiarazione d’amore verso la sua città, che non è esattamente famosa o particolarmente attrattiva, ma a cui si capisce quanto Moore sia affezionato.
È anche una riflessione sul Tempo e sulla Storia
Jerusalem (da leggere assolutamente in lingua originale, è per la maggior parte intraducibile) è un romanzo di un’importanza tale che non so manco se mai gli verrà riconosciuta. L’Alan Moore dei fumetti è tantissima roba e tutti lo sanno, ma l’Alan Moore romanziere per me è proprio Letteratura con la L maiuscola, lo dico a costo di fare la figura dello sfigato. Già The Voice Of Fire per me era un gioiello, ma Jerusalem è una roba che non ha pari, oggi come oggi. È un viaggio alchemico di scoperta e riscoperta sulla condizione umana, il cosmo, il tempo, la Storia, con mille registri diversi ma tutti gestiti magistralmente, senza alcuna concessione. Mette insieme Jung, Joyce, Blake, la psicomagia, la cultura folk inglese e un’amore sviscerato per il proprio territorio. A me viene male alle viscere a pensare che una roba così sia passata un po’ in sordina come “il romanzo strambo di quello che ha scritto Watchmen”.
se pensi questo di moore, tanto vale che ti leggi l’image di liefeld. come fai ad affrontare il suo providence se salti le parti in prosa? fitte e con un lettering assassino ma non di meno imprescindibili. per me la voce del fuoco rimarrà uno dei libri della vita, non vedo l’ora di leggere jerusalem. moore si legge tutto, tutto il resto sono come gli occhiali con la montatura grossa/senza lenti su una fica, roba da poser.
Uffa, ormai mi stroncate o mi perplisizzate tutti i film che attendo di piu’, come questo. Resto fiducioso.
Il mio amore per Moore è sempre rimasto nel recinto dei fumetti, ma per questo scollinerò (e poi son troppo curioso di vederla, ‘sta lugubre Northampton da cui ha deciso di non sganciarsi mai)
É richiesta recensione dell’ultimo di Sheridan con Occhio di Falco, Scarlet e il Punitore.
A proposito di film di città brutte grazie per avermi fatto scoprire “Get Carter”. Piaciuto
ai 400 calci ci avete abituati troppo bene: se un film non rientra nel range che trattate semplicemente non recensitelo, questa roba che sarebbe? breve, non dice niente, praticamente inutile