La cosa più misteriosa di Mistero al castello Blackwood è la totale assenza di una qualsivoglia forma di mistero. Ci sono tante cose in Mistero al castello Blackwood: superstizione, ignoranza, agorafobia, claustrofobia, un po’ di violenza, oclocrazia, patriarcato, ma cascasse il mondo se c’è un mistero da qualche parte. Va bene, d’accordo, è una menata di localizzazione sulla quale non vale la pena spendere troppo tempo, però il romanzo da cui è tratto il film di Stacie Passon è uscito in Italia con il titolo Abbiamo sempre vissuto nel castello, traduzione parola per parola di We Have Always Lived in the Castle, e perché non andava bene? A me sembra bellissimo!
Il castello in questione è una grossa magione di campagna nel nulla degli Stati Uniti e per estensione quello neanche troppo metaforico nel quale si era rinchiusa Shirley Jackson negli ultimi anni della sua breve vita. Se esistesse un Paradiso e il cosmo non fosse in realtà un luogo freddo e indifferente e privo di qualsiasi forma di trascendenza, e se in questo Paradiso si tenessero regolari riunioni e grandi feste con noti scrittori e scrittrici del passato, Shirley Jackson vincerebbe a mani basse ogni anno il premio Malcagatissima dalla Critica, e ogni anno non si presenterebbe a ritirarlo perché preferirebbe starsene chiusa nel suo studio. Shirley Jackson è stata una delle autrici più influenti del Novecento per tutto il genere horror, dalla letteratura al cinema, eppure una combinazione di svariati elementi – una produzione tutto sommato limitata, la sua congenita scarsa voglia di mostrarsi in pubblico, la diffidenza con cui la critica accademica guarda ai prodotti catalogati come “di genere”, un marito che l’ha sostanzialmente sfruttata commercialmente per vent’anni – le ha finora impedito di ricevere il riconoscimento che merita. E tutto questo nonostante i Grandi Nomi dell’Horror, da Stephen King in giù, proclamino da anni che Shirley Jackson è una delle voci letterarie più importanti del secolo scorso.
Abbiamo sempre vissuto nel castello è l’ultimo romanzo di Shirley Jackson, pubblicato tre anni prima della sua morte e indicato da più parti (sottoscritto compreso) come la sua opera migliore. È un romanzetto gotico dell’orrore che prende tanto dal Castello di Otranto o Il giro di vite quanto da Cime tempestose, e che, sulla base di una piccola saga familiare vagamente autobiografica, innesta tutti quei discorsi sociologici e psicologici che Jackson ha esplorato fin dai tempi della sua seconda opera, il racconto La lotteria. Quali siano questi discorsi sociopsico è a sua volta un discorso lunghissimo, ma per riassumere: Jackson, che anche prima di finire tra le grinfie del marito è sempre stata una persona riservata ai limiti della reclusione, ha passato la sua carriera a raccontare il marcio che si nasconde dietro la facciata bucolica del piccolo villaggio di provincia, e l’odio irrazionale dell’essere umano verso tutto ciò che è “altro” – un’evoluzione più concreta e umana di alcuni spunti lovecraftiani, o anche meglio un modo per allargare il discorso sulla mob justice del Frankenstein di Mary Shelley, nonché il motivo per cui esiste il Maine di Stephen King, o per cui Lynch ha inventato Twin Peaks, o l’idea alla base di tanti horror catalogati come “folk”, da The Wicker Man a Midsommar.
Mistero al castello Blackwood è dunque l’adattamento per il cinematografò di questa fondamentale opera di Shirley Jackson, prodotto sotto la supervisione del figlio che ha preteso di essere coinvolto nell’opera viste le brutte esperienze con alcuni precedenti adattamenti di romanzi e racconti della madre e diretto da una quasi-esordiente (almeno al cinema: è solo il suo secondo film, ma Passon lavora in TV da un po’). Come le è venuto? La risposta dopo la SIGLA!
Risposta: be’, dai, insomma, mica male, poteva andar peggio. Mistero al caOH VAFFANCULO non ce la faccio, è un titolo troppo idiota. We Have Always Lived in the Castle (da qui: WHALITC) è una trasposizione formalmente impeccabile del romanzo di Shirley Jackson: è un thriller gotico a bassissima tensione e altissimo tasso di carne al fuoco fatta andare a fiamma bassissima per circa un’ora, che si regge sulle interpretazioni del cast e sulla coraggiosa scelta estetica di provare a immaginare come sarebbe Cime tempestose se fosse ambientato nella provincia statunitense e non nella brughiera inglese. A capo di tutto ci sono Alexandra Daddario e Taissa Farmiga, sorelle, che vivono insieme allo zio in sedia a rotelle Crispin Glover in una magione isolata dal villaggetto; anni prima nella magione è successo il drammone: i signori Blackwood sono stati avvelenati con l’arsenico e pure zio Crispin ne ha preso un po’, abbastanza da stare malissimo e perdere la brocca. Le voci dicono che sia stata Constance (Daddario) ad ammazzare i genitori, e nonostante un processo che l’ha scagionata gli abitanti del villaggio odiano le ragazze Blackwood, le chiamano “streghe” e vorrebbero neanche tanto segretamente eliminarle perché sono una macchia oscena e imperscrutabile sul candore della loro vita agreste.
Tutto questo viene stabilito nei primi dieci minuti di film, che poi si prende il suo bel tempo per imbastire uno studio d’atmosfera e mostrarci nei dettagli come funziona la vita apparentemente claustrofobica di quel che resta della famiglia Blackwood, e come funziona in realtà l’agorafobia che ha colpito Constance e la sorella Mary Katherine dopo la morte dei genitori. È qui che Passon azzecca il primo colpo, prendendosi tutto il tempo che serve per non raccontare nulla ma per farci immergere nell’esistenza di queste due tizie un po’ strane che fanno incantesimi e seppelliscono oggetti in giardino per proteggersi dagli spiriti malvagi; il primo atto è tutto un tripudio di stanze superkitsch, sguardi allucinati, dialoghi frammentati e apparentemente senza senso e una colonna sonora a base di pop zuccheroso da prima metà del secolo scorso. È quel genere di stranezza mai eccessiva e per questo particolarmente respingente che ti porta a chiederti a ogni scena per chi dovresti parteggiare visto che a quanto pare nel villaggio senza nome dove si svolge la storia abita solo gente fastidiosa.
Alexandra Daddario e soprattutto Taissa Farmiga (alla quale tocca la responsabilità di interpretare uno dei personaggi più copiati dell’horror novecentesco, da Carrie fino a quella roba Netflix con la ragazzina telecinetica) abitano alla perfezione i loro ruoli e tengono in piedi la baracca fin da subito, anche quando Passon si distrae e comincia a girare un nuovo episodio di “Ville coloniali da incubo” e nonostante un Crispin Glover che poverino ce la mette tutta ma non riesce a risultare credibile in quanto attore serissimo e carichissimo. Quello che ancora manca, magari ci avrete fatto caso, è il mistero!
Le cose non cambiano neanche quando entra in scena l’elemento destabilizzante, Sebastian Stan nei panni del cugino Charles, fascinoso guascone e monumento vivente al mansplaining, che entra nella vita delle sorelle Blackwood con una sottigliezza tale che un po’ stupisce che non si presenti alla loro soglia con una maglietta con scritto NON C’È COSA PIÙ DIVINA. Charles è l’elemento di rottura e il motivo per cui una certa fetta della critica sostiene che WHALITC sia l’opera più femminista di Shirley Jackson (sulla questione allargata “femminismo e Shirley Jackson” non mi pronuncio perché ci sono discussioni in merito tra le critiche femministe quindi figuratevi cosa potrei dire io di interessante): l’uomo che si intromette nella vita privata di due donne e le separa a colpi di pene (metaforicamente parlando), e pian piano e quasi impercettibilmente rosicchia via non solo il legame tra le sorelle ma l’amor proprio e l’indipendenza di una delle due, quella che si vorrebbe tanto portare nel letto ovviamente; avete già visto un personaggio del genere un po’ ovunque, pensate a La notte brava del soldato Jonathan per dire, o al fatto che quando Wentworth Miller ha scritto quella fetecchia di Stoker ha scelto di chiamare il personaggio di Matthew Goode “Charlie”.
Mi rendo conto che questo costante flusso di nomi citazioni e influenze possa risultare stucchevole ma mi è utile per ribadire quanto presente e silente sia stata l’influenza di Shirley Jackson e di WHALITC su un’enorme fetta di intrattenimento moderno e contemporaneo. È una bella responsabilità che anche l’amico Stan accetta di buon grado, abbracciando il ruolo del maschio tossico con una facilità quasi preoccupante; la sua presenza è il carburante sul fuoco attizzato nel primo atto, e quando l’incendio divampa il film toglie finalmente il piede dal freno e si lascia andare a un climax fin troppo breve ma parecchio catartico, sia per motivi che scoprirete guardando il film, sia per come Passon si diverte a smontare pezzo per pezzo tutti i ninnoli e gli orpelli che si era altrettanto divertita a mettere in ordine e tirare a lucido.
Non tutto funziona come dovrebbe, e oltretutto WHALITC ha tempi modi e ritmi incompatibili con il 99% del resto del cinema. È autocompiaciuto, iper-estetizzante, tutto costruito su simmetrie e colori, dove anche la gentilezza e l’educazione sono parossistiche e urticanti, ed è anche se preferite una definizione più concreta un film dove non succede veramente un cazzo per gran parte del tempo
che nonostante le suggestioni ha pochissimo del thriller e nulla dell’horror in senso stretto, ma che non si vergogna di andare a pescare da quell’estetica quando serve
e che quindi potrebbe legittimamente lasciare disorientati e persino delusi se lo si approccia pensando che in italiano si intitola MISTERO AL CASTELLO BLACKWOOD. Se però lo si approccia pensando che è un film sull’odio raccontato a colpi di fiorellini vestitini svolazzanti e sorrisi al miele la valutazione cambia e ritorna quella che esprimevo sopra: be’, dai, insomma, mica male, poteva andare peggio.
Non so più che formato usare quote suggerita:
«Un buon primo passo verso il definitivo riconoscimento dell’importanza di Shirley Jackson»
(Stanlio Kubrick, i400calci.com)
In effetti, il tema della mascolinità tossica è quanto più moderno e importante da discutere.
A parte questo, la Daddario le esce?
E’ una domanda importante, ne convengo, ma personalmente non giudicherei un film solo da questo aspetto. Le ha già uscite una volta (True Detective, uso lo screenshot come desktop e nemmeno mia moglie quando l’ha visto ha avuto nulla da obbiettare) e tanto mi basta. Anche perchè da qui in poi possono solo peggiorare.
Basta un si o un no.
Bella la sigla, ma io proporrei anche questa: shorturl.at/agjY6
Quoto Abbiamo sempre vissuto nel castello come fior di capolavoro e Shirley Jackson scrittrice davvero troppo sottovalutata (tranne che da chi se ne intende: se non ricordo male King cita questo romanzo nell’incipit di Carrie, e andando avanti nella lettura si capisce anche perché…). Non so se avrò il coraggio di approcciare il film, con Hill House non mi sono azzardata…
Hill House serie consigliatissima!! Ha pochissimo della lettera dell’opera della Jackson ma tutto dello spirito, e poi diciamocelo, fa paura.
Riguardo il film…Shirley Jackson + la combo Taissa Farmiga/Alexandra Daddario? Venduto! Dove si trova legalmente?
La serie netflix di Hill House per me è un capolavoro, molto ben fatta. Se ne era parlato anche qui su i400 calci.
Pare che la Jackson stessa soffrisse di agorafobia, poveretta.
E che non uscisse praticamente mai di casa.
Tra le altre cose collezionava oggetti usati dagli occultisti e si definiva lei stessa una strega praticante. Anche se solo per scherzarci su.
Ma contribui’ di sicuro alla sua fama di persona eccentrica, anche se pare avesse un carattere davvero amabile.
Poi, incredibilmente, e’ da persone miti che nascono le suggestioni piu’ incredibili.
Tipo di un paesino dove una volta l’anno si tiene un sorteggio. E il vincitore…viene lapidato a morte dai suoi stessi concittadini!!
Non a caso La Lotteria, il suo romanzo piu’ famoso, ricevette parecchie critiche.
@STANLIO mi pare sia uscito anche un film sulla Jackson interpretato da Elisabeth Moss, chiamato proprio SHIRLEY
Esatto! C’è una riscoperta della Jackson da parte dell'”opinione comune”, sicuramente spinta da un’attenzione verso i grandi personaggi femminili. Nell’ultimo anno ho letto non so quanti articoli su di lei su varie riviste di letteratura. Buona cosa.
Mi stupisco un po’ di vedere un film cosi’ recensito qui sopra, visto che in fin dei conti e’ un film drammatico senza nulla di calcistico.
D’accordo con la rece. Il film e’ carino, ben interpretato, ma come surgelato, caratteristica di molti film “rafinati” degli ultimi anni. In questo caso la mancanza di vita del tutto potrebbe anche essere una scelta interessante, non fosse che tutto e’ “congelato” agli estremi, dalla fissita’ da marionette delle protagoniste, all’odiosita’ meccanica dei paesani, fino appunto al cugino arrivato per scoparsi la cugina senza nessun tipo di sottintesi. Insomma, ogni inquadratura vorrebbe essere un quadro, ma finisce per essere spesso foto da rivista di moda.
Tra questo e quella specie di “biopic” dedicato a Shirley Jackson, mi sa che c’è da recuperare un po’ dei suoi scritti che colpevolmente mi mancano. Questo risulta meno interessante dell’altro però. Anche se l'”estraneo” che divide le sorelle a colpi di “pene” potrebbe essere uno spunto interessante.
Non per fare il bastian contrario, ma ho letto un po’ di roba della Jackson (negli ultimi anni molto pompata da Adelphi) e sinceramente le uniche sue opere che mi hanno davvero colpito sono appunto La lotteria e questo bellissimo romanzetto gotico (ragion per cui cercherò di vedere il film). Hill House scusate ma l’ho trovato terribile, forse la storia di case infestate più inutile di sempre, imparagonabile con il film degli anni sessanta (la serie non l’ho vista)
Non sei il primo che sento dire che il film di Wise e’ meglio del romanzo (che non ho letto). Del resto parliamo forse del miglior film di fantasmi di sempre dopo “Suspense/The Innocents” di Clayton (e giocandosela con “Shining”).
Visto su amazon prime (in italiano, all’anima degli stramorti vostri che non mettete a disposizione i film in lingua originale) e mi è piaciuto molto. Bello dall’inizio alla fine, conduce perfettamente i personaggi attraverso le loro manie e la loro fissità, scoperchiando tutto quello che c’è in mezzo e sotto, attraverso dialoghi folli e dissociati. Ad esempio a me il personaggio di Crispin Glover è piaciuto molto, mi ha fatto molta tristezza. Tra l’altro, sarà vero che il film è contrario al 99% del cinema di oggi, ma ha un pregio che voglio sottolineare: dura un’ora e mezza.
un bel film dove per un ora e mezza succede poco e nulla…ma quello che accade, accade bene…molto introspettivo e psicologico, ma si anche noioso, praticamente non accellera mai di ritmo, ma di sti tempi di vuoto cosmico non si butta via nulla…
oh, la daddario per carità, gran bella ragazza, ma quando ti spara quei sorrisi con quegli occhi a palla chiarissimi…non c’è quarta che tenga…
Ma io ho letto sia “Abbiamo sempre vissuto nel castello” che la “La lotteria” e li ho trovati di una noia terrificante. Non succede nulla per tutto il racconto e quando inizia ad essere interessante finisce.